Verso una rete di cucine in movimento

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testo e fotografie di Eat the Rich

Eat the Rich nasce nell’autunno 2013 dalla voglia di alcuni compagni attivi negli spazi autogestiti bolognesi e nei collettivi universitari di realizzare una cucina popolare. Anche se partivamo da premesse molto semplici ci trovammo di fronte a una realtà già per forza di cose molto complessa.
Da un lato la vita studentesca della zona universitaria che attraversavamo era schiacciata tra la mensa più cara d’Italia e l’alternativa economica ma scadente, con in mezzo i primi segnali della conversione bio-equo-green, dall’altra un governo della città che, per meglio vendersi al tanto agognato turismo di massa, non aveva ancora deciso che l’etichetta da appiccicarsi addosso sarebbe stata quella del food, mentre i privati cominciavano ad aprire i primi punti di ristoro gourmet e le boutique del biologico iniziavano a diffondersi nei quartieri benestanti. Sul “fronte interno” sin da subito ritenemmo strategico assumere la sfida politica di superare l’uso classico della cucina in uno spazio sociale, ovvero come mero strumento di autofinanziamento, che poco bada a cosa, come e per chi si cucina. Quindi provammo a stimolare una riflessione interna alle realtà cittadine proponendo di mettersi in rete, e allora, assieme alle cucine di XM24 e del circolo anarchico Berneri, incontrammo l’associazione CampiAperti, rete di produttori biologici e mercati contadini, e nodo locale di Genuino Clandestino. Sicuramente apportammo una ventata di freschezza e energie nuove, di lì a poco nacque anche il Giaz, un gruppo d’acquisto che prova a superare l’idea stessa di GAS e che recentemente si sta concentrando nello Spaccio Popolare Autogestito al Berneri. Per quanto ci riguarda i primi due anni furono contraddistinti da un’intensa attività ai fornelli della cucina del Vag61 nel quartiere Cirenaica, dove con continuità e fantasia realizzammo centinaia di pranzi sempre più partecipati. In quei momenti imparammo a conoscerci e farci conoscere, scoprimmo come politicizzare pienamente lo spazio della cucina al punto da non poterlo distinguere dallo spazio dell’assemblea, ci rendemmo conto delle possibilità che scatenava anche un semplice pranzo se vissuto come un momento di lotta e costruzione di comunità consapevoli e antagoniste. Nell’esperienza, oltre che nel continuo confronto e nella ricerca, trovammo le risposte al più grande interrogativo che ci assillava in quella fase: come sfuggire alla trappola della sussidiarietà? Come fare in modo che studenti, lavoratori e disoccupati che attraversano i nostri pranzi non percepiscano il nostro come un servizio? Dopo aver formulato un ragionamento sulle filiere alimentari alternative alla grande distribuzione e sulla ricerca di un km0 prima di tutto politico, il prezzo autogestito (né un prezzo né un’offerta, ma una parte del processo di costruzione del pranzo condivisa con chi sta dall’altra parte del bancone) fu uno dei primi strumenti di cui ci dotammo per rispondere a queste domande. Da subito inoltre la cucina fu aperta a tutte e tutti coloro che volessero entrarci anche solo per dare una mano un’ora, oppure per lavare il proprio piatto e quello di altri.

Divenne così un luogo di condivisione politica e materiale, oltre che una possibilità di incontro con tanti e diversi interessati al progetto.
Ma furono anche anni di intensa attività politica di autoformazione e tessitura di reti solidali in tutta Italia, conoscemmo Genuino Clandestino ed iniziammo a organizzare un tavolo di discussione nazionale delle cucine autogestite (primo embrione di quello che poi diventerà il Festival delle Cucine Popolari a oggi giunto alla seconda edizione), venimmo a contatto con la rete No Expo e partecipammo alle MayDay milanesi portando sostegno attivo alla Taz del maggio 2014.
Un progetto politico, Eat the Rich, che come tale risponde a dei bisogni e attacca le contraddizioni. Di lì a poco entra in scena il progetto della Fabbrica Italiana Contadina di Farinetti, Expo2015 a Milano avrà come tema il cibo, e i negozi bio-equo-green hanno ormai raggiunto una diffusione impensabile solo pochi anni prima… alcuni mercati rionali vengono tirati a lucido, altri vengono tirati su nuovi di zecca. E dappertutto, ovunque, spuntano fuori sempre Coop e Eataly.
Tantissimi sono gli incontri, le presentazioni e i dibattiti che animiamo assieme a giornalisti, scrittori e altri collettivi: Farro e Fuoco, OffTopic, Wolf Bukowski, Wu Ming, Alessando Angeli, Clash City Workers, Genuino Clandestino. Alcuni di questi sono dei nostri veri e propri compagni di viaggio. E allora portiamo tante persone e tanta rabbia a Milano per l’Expo, e incrinato l’evento proviamo ad aprire altri spazi di contraddizione, per due volte proviamo a occupare due spazi abbandonati alla speculazione e per due volte in poche settimane veniamo sgomberati in poche ore. Ma questo non è che l’inizio della lunghissima stagione di sgomberi, che a oggi conta decine di occupazioni abitative e spazi sociali chiusi dal questore Coccia, con l’amministrazione che ha variamente inscenato innocenti piagnistei o applausi a scena aperta.

Arriva l’estate ma Eat the Rich non va in vacanza. Leggiamo sui giornali che un centinaio di migranti bloccati a Ventimiglia occupano la scogliera al confine. D’istinto lanciamo una staffetta solidale, che diventerà nazionale, portiamo una cucina da campo che diventerà uno degli strumenti vitali per la resistenza e la socialità del presidio. Difficile restituire la potenza aggregativa sprigionatasi in quei giorni. Ventimiglia, lo ripetemmo un po’ tutti al ritorno dai viaggi al confine, fu un punto da cui non si poteva più tornare indietro. Quei mesi dimostrarono la forza che un progetto come il nostro poteva avere se attivato nelle situazioni di maggiore difficoltà e conflittualità. Un fornello da campo ci ha permesso di parlare tutte le lingue del mondo ma, cosa più importante, ha contribuito alla resistenza e alla lunga permanenza dei migranti sugli scogli attivando l’autogestione collettiva e il reciproco incontrarsi. Le prime ordinanze che la giunta di Ventimiglia varò quell’estate riguardarono proprio la possibilità di condividere il cibo. Con questa nuova consapevolezza siamo rientrati (quasi) tutti a Bologna a fine settembre del 2015, attenti nell’individuare i continui confini (materiali e immateriali) che sappiano attraversare i quartieri selezionando chi ha accesso e chi no alla città (che è città-vetrina in cui il consumo rimane il solo spazio di azione consentito), marginalizzando e attaccando poveri e incompatibili. Per i seguenti mesi ci rendemmo disponibili a stare ovunque si accendessero focolai di resistenza, volenterosi di essere in prima persona, con un fornello, in ogni spazio di conflitto che si aprisse in città. In un contesto come quello descritto sopra, in cui la repressione avanzava attraverso continui sgomberi e sfratti (fino ad arrivare, oggi, ad aver eliminato ogni occupazione abitativa dalla città), è stato naturale per noi stare al fianco dei movimenti di lotta per la casa portando cibo e solidarietà per resistere agli interventi della polizia. Da quelle situazioni di lotta sono nate esperienze di contagio molto significative come il corso di cucina meticcia durato 10 mesi e realizzato insieme agli occupanti con Social Log (sportello per il diritto all’abitare) nelle occupazioni abitative sotto attacco.

Ripartendo dall’esistente ci siamo messi al lavoro per continuare il contagio. Essendo la cucina innanzitutto una pratica, abbiamo sempre proposto e promosso il nostro come un modellino possibile di cucina popolare, genuina e autogestita. Un modellino funzionante e quindi riproducibile. Un dispositivo capace di scatenare processi politici.
Il nostro ambito nazionale fino ad allora era ritagliato a un tavolo durante gli incontri di Genuino Clandestino, ma nei primi mesi del 2016 venne fuori l’idea di contattare tutte le cucine popolari che negli anni avevamo incontrato nelle trasferte fuori città e di cercare altre esperienze interessanti sparse per l’Italia. Ne venne fuori il Festival delle Cucine Popolari Autogestite che vide la partecipazione di decine di realtà che dalla Sardegna al Piemonte accorsero a Bologna, all’XM24, per discutere collettivamente di come si potesse oggi intendere la cucina come strumento e pratica rivoluzionaria. La discussione, divisa in quattro tavoli tematici, fu molto viva e al termine della due giorni (conclusasi in una giornata di cucina collettiva e laboratori in piazza), ci lasciammo con la promessa di rincontrarci l’anno seguente.

E siamo a ora. In realtà nei 12 mesi passati sono successe molte cose e altre speriamo succedano.
Le relazioni dei primi giorni non sono svanite, ma si sono rinsaldate e hanno portato alla costruzione collettiva dell’incontro nazionale di Genuino Clandestino tenutosi quest’anno a Bologna. Ne sono nate molte nuove come accennato e continuiamo a scommettere sul contagio dell’autogestione. In questi giorni a Roma, al Forte Prenestino, si è tenuta la seconda edizione del Festival delle cucine Popolari e Autogestite e altre realtà si sono unite a quella che sempre di più assomiglia a una rete di cucine in movimento.
Quest’anno in particolare abbiamo sentito la necessità di fare un ulteriore passo in avanti politicamente. Consapevoli di essere cresciuti molto al nostro interno ma di non poterci in alcun modo accontentare di ciò, abbiamo scelto di portare la nostra presenza il più possibile nelle strade, portando la nostra cucina come modello di autogestione opposto all’esistente e come strumento per attaccarlo. Siamo stati di fronte ai centri commerciali Coop e alle boutique di Alcenero, abbiamo contestato Farinetti e siamo stati in Piazza Verdi solidali con gli studenti sgomberati brutalmente dall’Università, sempre in tanti e tante a prenderci la strada per un pranzo che è soprattutto una manifestazione collettiva di dissenso. Crediamo che la nostra esistenza derivi anche dalla necessità di stare nelle contraddizioni del presente e di attaccarlo. Come, nelle fasi iniziali, ci chiedevamo come fare per non cadere nella trappola dell’assistenzialismo, oggi allo stesso modo ci domandiamo come fare perché l’alternativa che produciamo possa far male alla controparte senza finire per diventare un’isola felice funzionale solo al nostro microcosmo.

Il nostro modo di intendere e utilizzare il cibo e la cucina come strumenti politici di resistenza e attacco non è evidentemente assimilabile con il capitalismo che si tinge di verde e ritrova nel paradigma del “Bio per pochi” un volto pulito per rinnovarsi. Il livello dello scontro sta tanto nell’immaginario quanto nella materialità delle vite di tutte/i.
È per questi motivi che ancora oggi dopo quasi quattro anni continuiamo a ragionare su noi stessi e interrogare le nostre forme di lotta e autogestione, a partire come sempre da un fornello.
Ed è probabilmente per questi stessi motivi che ora, nel giugno del 2017, il nostro collettivo vive un momento di duro attacco repressivo.
Sono sette i compagni colpiti da assurdi fogli di via in questo momento, allontanati dalla città in cui da anni vivono, studiano, lavorano e soprattutto resistono. Chi per una scritta su un muro, chi per un tentativo di occupazione.
Ciò che contestano è l’incompatibilità delle nostre forme di vita militanti, la potenza sovversiva della nostra cucina.
Non lasceremo che lor signori possano spegnere questa esperienza e confidiamo nella complicità e solidarietà di tante e tanti.

leggi E io ti mangio
testo di Laura M. Alemagna, fotografie di Eat the Rich

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 05
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per continuare la lettura di questo e dei prossimi numeri de L’Almanacco potete scrivere a info@laterratrema.org
o cercare la vostra copia in uno di questi nodi di distribuzione autogestititi dai sostenitori.

Last modified: 20 Ott 2019

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