Una parola stramba per un luogo in cui vino e comunanza sono tutt’uno.
Finché si resiste…

di Simonetta Lorigliola

Leggere il territorio enoico a Trieste e dintorni è un’esperienza che ti puoi giocare al di fuori dell’appiccicoso mainstream del mondo del vino. Ma devi fare in fretta. Essere la provincia più piccola d’Italia, trovarsi ai margini orientali, lontano dall’Italia, ha avuto i suoi vantaggi. Ci vogliono più di cinque ore su strada per arrivare a Milano, una giornata lavorativa per raggiungere Roma, ma in poco più di quattro ore sei a Vienna, a Bratislava o a Budapest, in due sei a Zagabria, in un’oretta arrivi a Lubiana. Certo, la cortina di ferro alzata non significava molto, ma parecchio ha voluto dire nei secoli precedenti e può nuovamente voler dire qualcosa oggi. Forse. Perché anche Trieste è stata raggiunta, soprattutto negli ultimi due anni, dalle spire cloroformizzanti del turismo uniformante. Siccome Venezia ha finalmente ripudiato le navi da crociera, ora arrivano tutte qui, a raffica, con il loro carico di inquinanti dell’aria e del pensiero. 

La città è oggettivamente bellissima. Bello il suo Adriatico mar, unico il suo altipiano con le vecchie montagne calcaree, le grotte e i fiumi sotterranei. Potrei dirti della rete dei suoi letterati, poeti, artisti. Delle sue comunità/alterità come la greca, la serba (storica e nuova), l’ebraica, l’armena… Dei suoi cantieri navali, delle lotte operaie. Delle battaglie per i diritti delle minoranze, la slovena in testa, diverso cuore battente triestino. Una città densa, perfetta per chi la voglia incontrare in una profonda e gioiosa conoscenza, per ispirare atti di ribellione diversamente coniugata. Invece oggi viene presentata dai suoi amministratori come un gigantesco luna park. Ci vogliono anche costruire – paga papà PNRR – un’ovovia che colleghi il mare con il Carso, appesa in balia della bora a 120 km orari: l’idea è folgorante.

Ma non dovevo parlarti delle osmize? Beh, anche quelle, che Dioniso le conservi. Fatti un giro, appena puoi. Ci vuole l’auto. Sulla Venezia-Trieste esci a Prosek/Prosecco. Non parlo qui di vino Prosecco, perché quella è un’altra lunga storia, e non è una bella storia. Magari, un’altra volta.

Cerca, al primo incrocio possibile, la freccia intagliata nel legno che indica il nome del paese o del vignaiolo. Ogni freccia porta a un luogo diverso, una nuova cantina, una casa differente. Puoi fare pellegrinaggi felici. Sopra ci sta un ramo di edera selvatica, a sottolineare il legame stretto tra mondo contadino e mondo vegetale. Scegli, possibilmente, un giorno feriale. Ignora alexa, siri e navigators: segui solo la freccia che non ti abbandona mai, ti chiama a ogni incrocio, fino al portone dell’osmiza. Cercando il tuo bicchiere di vino, attraverserai l’altipiano, un tempo landa carsica, oggi punteggiato da roverelle, faggi, carpini, sommacco, sambuco e l’alieno pino nero. Ci sono consumati muretti a secco, strade tortuose e strette, borghi in cui ancora resistono (ai geometri e alla triste modernità cementizia accolta da molti, anche qui) i muri in grigia pietra calcarea, gli orti, le vigne.

Abbassa i finestrini e respira il Carso “paese di calcari e di ginepri”.

Sei arrivato all’ultima frasca, quella appesa alla porta dell’osmiza? Bene, parcheggia il più lontano possibile: fai due passi, goditi l’avvicinamento. Ascolta l’aria. Se hai fortuna magari sei a Samatorca/Samatorza e ti trovi nell’osmiza di Sardo. O a Nabrežina/Aurisina da Pertot, o a Repen da Škabar, a Praprot/Prepotto da Gabrovec per dirne alcune tra quelle che hanno conservato l’architettura storica. 

Ma ci sono anche le osmize millenial, come quella di Gregor Budin e Alice Spangaro a Salež/Sales: design contemporaneo saldamente ancorato a pietra, legno e atmosfere totalmente carsiche, tra la vigna e la montagna. Una bellezza. 

Torna all’osmiza storica. Ecco i muri che circondano il cortile e la grande porta, sormontata da un arco, coi battenti in legno, da cui doveva passare il carro, tirato dai buoi o dal cavallo. Et voilà, sei già nel cuore del Carso: la civiltà contadina. Qui, da sempre, hanno vissuto con la terra. Poca, perché il Carso è avaro di terra. 

Poca terra, agricoltura di sussistenza, capre (prima), mucche (poi) per vendere il latte in città. Il vino si faceva fondamentalmente per autoconsumo. Così, fino agli anni Settanta del Novecento. Un consumo utile e necessario. Perché lavorare la terra sul Carso costava tanto sudore e sacrifici e un bicchiere di vino era un alimento, un liquido essenziale ma anche una meritata consolazione. Droit a l’ivresse.

Varca la soglia immensa e sei a casa del vignaiolo, del contadino, ieri e oggi. Ora che sei entrato, guarda i muri, forse ci sono il vecchio pozzo e il tavolo di pietra, da qualche parte. 

Calcare, icona del Carso. Grigio e poroso, permeabile: l’acqua penetra nella roccia e si porta via la terra formando le doline (dol in sloveno significa valle e anche giù) al cui fondo, su strati omeopatici di terra, si facevano (e fanno) gli orti, fazzoletti per semenze miracolate che possono mettere radici. Se la dolina è molto grande si chiama inghiottitoio (foiba… eh, si). Sotto, nella loro pancia, le doline hanno il vuoto, scavato dall’acqua: le grotte. È il “carsismo”, fenomeno qui battezzato che esiste ben al di fuori del Carso geografico. 

Pronto all’assaggio? Ricorda che ti trovi a casa del vignaiolo, non in un banale locale pubblico. Non ti aspettare camerieri e servizio al tavolo. Vai tu al banco improvvisato, leggi la lavagnetta. Chiedi, se hai bisogno. Dialoga, subito. E saluta come si conviene: dober dan. Torna al tavolo. Guarda. Questo è il piccolo regno della comunanza senza classi e ordini. Una sorta di isola anarchica in cui non conta nulla se non lo stare bene, il dialogo, il canto. Spesso in osmiza si canta, c’è qualcuno che da casa ha portato una chitarra o una fisarmonica e intona, o stona, un po’ di tutto. Viva l’A. e po bon. Altro capitolo.

Infine, ma in principio, il vino. L’osmiza è il regno del vino sfuso, e questa è la sua tradizione. Negli ultimi vent’anni le cose sono cambiate. La ricerca qualitativa ha segnato il passo. Non che qui si lavorasse mai in vigna per la quantità, nemica della qualità. Forbidden. I vigneti sono su suolo carsico, memento. Bisogna buttare via le pietre una a una, picconare la roccia per poi metterci un po’ di terra raccolta dove si può. Le rese non possono essere alte, per definizione. Il clima, asciutto e fresco, il vento (la bora) aiutano a mantenere sano l’ambiente e i trattamenti sono limitati a rame e zolfo, quasi per tutti.

Ma c’è anche stata una rivoluzione enoica partita negli anni Ottanta, con pochi apripista come Lupinc e Kante, che ha fatto il suo corso. Il vino oggi va spesso in bottiglia, anche per piccole produzioni, anche nelle osmize. Questo significa inevitabilmente maggiore cura: si fa un vino perché duri e anche perché viaggi, perché porti il Carso fuori dal Carso. A volte significa prezzi un po’ fuori controllo, ahimè.

I vitigni di riferimento sono sempre quelli. Fino agli anni Novanta quasi non si nominavano, a eccezione della malvasia e del refosco, vinificato come Terrano, spigoloso e simbolico vino carsolino. Il bianco sfuso era un taglio (uvaggio) prevalentemente con malvasia istriana, glera e vitovska, varietà cittadine carsiche da tempo immemore.

Oggi le senti chiamare per nome queste uve, e ben venga che siano emerse dall’anonimato, naturalmente. Anche se bisogna aggiungere che la febbre per l’autoctonia non è mai una bella cosa, né per gli umani né per i vini.

E a chi vorrebbe in Carso solo autoctoni puri, a beneficio di un’identità enoica stile heimat, ricordo che nei vigneti contadini regna da sempre lo spurio. Perché illo tempore qualche vignaiolo ha voluto sperimentare varietà di altri luoghi, innamorato di altri vini. E spesso si son fatti incroci e imbastardimenti. A beneficio del vino buono. La stessa vitovska, all’analisi genetica, risulta figlia di malvasia e glera. Bisogna sempre andarci piano con la purezza. Io, sto con Veronelli: “Ogni vitigno è apolide; prende cittadinanza nel momento stesso dell’impianto”. Aggiungo che cittadinanza e residenza si consolidano se funziona l’alchemica triade del terroir: suolo, clima e mano dell’uomo. Le varietà si fanno (non nascono) storiche.

E restiamo intesi: oggi il vino sfuso in osmiza la fa ancora da padrone, a prezzi popolari (quasi ovunque): tra i tavoli e le panche in legno, nel cortile di casa, viaggiano i litri, insieme ai taglieri di salumi che, per legge e per etica individuale, dovrebbero essere autoprodotti. Tasto doloroso. Non è più così tout court. Per due ragioni. La prima è che pecunia non olet. E oltre non dico. Poi ci sono le insensate prescrizioni normative. Un vignaiolo e osmizaro onesto e sincero mi racconta che, dall’anno scorso, ha dovuto rinunciare a tirarsi su i maiali. Mi porta a vedere dove li teneva, al margine di un piccolo vigneto, dove potevano razzolare in uno spazio più che degno, su erba e terra. Ma i nuovi regolamenti impongono un box per maiali con pavimento e muretto rialzato, in cemento. Che significa costi e anche imbarbarimento estetico naturalistico. Ovviamente lui non vuole costruire un quadrilatero di cemento nel suo vigneto. Ragione per cui ha portato i maiali in una struttura, “a pensione” sostanzialmente. Va a vederli un paio di volte a settimana, e sceglie lui cosa devono mangiare. Ma non è la stessa cosa. E lui è incazzato nero. Sicut insipientia legis.

Insomma, basta. L’hai già intuito: se vuoi capire cosa è il Carso ribellandoti ai dettami del “turismo” ammaestrato, cerca un’osmiza.

Ma, poi, che razza di parola è?

Primero: la parola originale è osmica, in italiano si pronuncia “osmiza” dato che è lemma sloveno, lingua madre di queste terre. Deriva da osem (otto) ovvero il numero dei giorni in cui era concesso ai contadini di aprire le porte di casa e vendere il proprio vino sul posto, e questo dal 1784 quando Giuseppe/Jozef II, uno dei sedici figli di Maria Teresa d’Austria, firma un decreto che al suo interno istituisce proprio l’osmica.

Perché accade? Io un’idea me la sono fatta. Giusta o sbagliata, è una storia. Passo indietro, necessario. Bignamino di storia locale. Dal Basso Medioevo in poi Trieste, che è poco più di un villaggio, inizia a coltivare viti e ulivi sulla sua fascia costiera (breg) e diventa una vera e propria città del vino, con centinaia di ettari vitati e il vino esportato in mezza Europa. Il breg non è Carso, è la parte affacciata sul mare, marne e arenarie (non calcare), paradiso terragno per la vite. Il 18 marzo 1719 l’imperatore d’Austria Carlo VI (papà di Maria Teresa, nonno di Jozef II) aveva istituito il Porto Franco di Trieste e mutato il destino della città, destinata a essere necessario porto dell’Impero asburgico.

La città esplode economicamente e demograficamente. Forse il vino prodotto non basta più, neanche ai suoi abitanti. Lo attestano documenti dell’epoca: si smette di esportare, si comincia a cercare vino altrove. In Carso se ne produce poco, per la famiglia, ma l’istituzione dell’osmica poteva essere una risposta alla crescente domanda di vino e anche un bonus alle povere economie familiari carsoline. Jozef II, d’altra parte, fu un riformatore o, meglio, un “assolutista illuminato” figlio delle idee nate in Francia con l’Illuminismo. Fece dura battaglia contro il clero a cui tolse molti privilegi e impose  nel 1775 la soppressione della tortura. Era attento allo “stato di benessere” e guardava ai ceti popolari. Chissà che l’osmica non gli fosse venuta in mente proprio in quel senso. Non sappiamo. Ma possiamo divertirci a immaginare. Di certo, da allora, l’osmica non ha mai smesso di esistere. 

La stessa formula era presente in vari territori imperiali, con nomi diversi come la Rama nel veronese (morta definitivamente dagli anni Settanta), il Törggelen sopra Bolzano (qualcosa c’è ancora) o la Frasca in Friuli (ve ne sono ormai molto poche). Ma più di tutto sopravvive ancora oggi l’osmiza. C’è stato un momento di down nell’edonismo degli anni Ottanta-Novanta, in cui ci si vergognava di ogni residuo contadino. Ma poi tutto è ripreso con gran vigore. Forse perché qui la gente ha trda glava (testa dura) più che altrove. O forse perché ai triestini cavagli tutto, ma non il bicchiere di vino pop e la ciacola in compagnia, motivo per cui sono malvisti dai seriosi e laboriosi vicini, i friulani. Chissà. 

E chi lo sa. Per questo, chiudo con un punto interrogativo e ti invito a fare il viaggio. Segui la frasca (anzi, come dicono a Trieste “il frasco”) e costruisci il tuo percorso, sperimentando non una sola, ma diverse osmize. Scegli, lasciati trasportare. Distingui, confronta. Cerca anche i difetti, e godi quando non li trovi. Alza il bicchiere. Brindiamo al sacrosanto vino popolare. Na zdravlje!

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 29
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 28 Ago 2023

2 Responses to " OSMIZA o del vino popolare "

  1. Ermanno Domenicale ha detto:

    Ottimo articolo, brava Simonetta

    • Simonetta ha detto:

      Caro Ermanno! Grazie
      Per aver letto il mio pezzullo sulle osmize…ricordando che le prime “frasche” furlane le ho frequentate con te! Simonetta

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.