Il Breg è un paradiso enoico perduto. Qui Mitja Zahar e Tania Stefani custodiscono vigne lillipuziane, le curano con pratiche agronomiche ad alta sensibilità, trasformandole in avamposti di rigenerazione ambientale. I loro vini, orgogliosamente artigianali, sono personali, puliti e lucenti. Una gioia per testa, cuore e naso.

di Simonetta Lorigliola
Fotografie di Simonetta Lorigliola e Lorenzo Monasta

Una sera di fine estate sfoglio un quaderno. Cerco gli appunti scarabocchiati durante un incontro e mi svolazzano tra le mani trifoglio, cicorietta, achillea, melissa, silene, nepitella… Le more di rovo non possono esserci, ma le ho mangiate: ciccione, succose e dolci. I fichi erano un po’ acquosi, per la tanta pioggia che li ha ingrassati, ma ce n’erano a iosa. Tracce vegetali, saporose e odorose, che mi hanno seguito fin dentro casa. Non sono stata in un prato di montagna a trafugare specie protette e neanche in un orto botanico. Ho camminato le vigne di Mitja Zahar e Tania Stefani. È stata lei a raccogliere via via fiori e foglie e mettermeli sotto occhi e naso. Vedi? Senti? Mi diceva. Vedevo e sentivo, eccome. Non era un’azione dimostrativa ma una passeggiata erbosa tra anime curiose. 

Una tale quantità di essenze vegetali in un vigneto è un bignami di sensibilità enoica. Non è ansia classificatoria. Ti dice semplicemente come sta quella vigna. Da Lorenzo Mocchiutti, vignaiolo planetario in Friuli, ho imparato che “inerbito” non significa nulla. Se quelle erbe sono solo graminacee, ad esempio, sarà indizio di terreno asfittico e poco incline al dialogo. Se spopola il tarassaco, non è proprio una bella roba. Ma qui, i segnali sono tutti variamente selvatici e splendenti. Le essenze stanno sulla superficie ma raccontano il sottosuolo. Sono la testimonianza verace che la terra è buona. Buona vuol dire viva, coi suoi microrganismi che la macinano e trasformano. Ossigenazione, vita libera e non mummificata dai diserbanti e dai concimi minerali. Sovesci, a volte compost vegetale, tisane e micorize e soprattutto tanta cura e attenzione: ecco cosa vuol dire “gestire il suolo”. 

C’è Steiner sullo sfondo, certo. Ma Mitja non ha il tiro sacerdotale di chi si compiace di ritualità antroposofiche. Non è il tipo. È un uomo concreto, con le mani massicce, lo sguardo acceso e l’esperienza ben riposta nella bisaccia dei pensieri. Non cerca scuse o ascendenze, anche se potrebbe appellarsi alla secolare storia contadina della sua famiglia. Ma non lo fa. Non cade nel luogo comune della tradizione che insegna tutto. Anzi, col papà lui ha avuto anche i suoi scontri, e lo dice. Mi racconta che il suo incontro con una viticoltura sensibile è passato dalla conoscenza di Alessandro Filippi, l’anti-enologo dei Vini di luce. Lui e Tania volevano praticare una viticoltura sana, prima di tutto perché in vigna ci andavano loro stessi. Filippi, con la sua seria, innovativa e un po’ poetica teoria, ha mostrato loro una via concreta per attuare quel desiderio. I vigneti di famiglia c’erano, un ettaro e mezzo. Anche là erano arrivati i dettami del Consorzio agrario, ovviamente. Di buono c’era che nonno e papà non avevano voluto rinunciarci. Dalle Langhe alla Basilicata, dalla Calabria al Collio erano gli anni dell’abbandono delle terre in cambio di modernità. Si va in fabbrica. Nei booming Sixties essere contadini equivaleva a essere sfigati: via dalla terra, come fosse pestilenza. È stato così anche qui, in un angolo di mondo ignoto ai più. Sì perché non lo sai ancora, ma Mitja e Tania hanno le loro vigne nel Breg. 

Ci troviamo nell’ultimo lembo della lillipuziana provincia di Trieste, verso est. Il confine con la Slovenia è a due passi e nel lunghissimo secondo dopoguerra ha tagliato in due un mondo. Ma di qua e di là c’è molto di comune e si parla lo sloveno, che è una delle due lingue di Trieste, benché ancora oggi in molti lo sconfessino: ottusità incomprensibili in un mondo in cui tutto è mondo. Breg, lemma sloveno, è scarsamente traducibile in italiano con efficacia semantica. Significa costone, riviera. Ma non rende. Il Breg è il Breg. Dimentica purismi monolinguistici. A Trieste non funzionano, in barba a chi la voleva e vuole italianissima, di fatto non lo è mai stata. Salus sua.

Il Breg è stato l’anima enoica di Trieste quando il vino costituiva la prima economia cittadina. Sembra un discorso folle. Tutti la ricordano per gli Asburgo, il porto, i traffici, le compagnie assicurative. Ma è storia recentissima. Era una città assolutamente enoica, dal Medioevo fin quasi al primo Novecento. A partire da Capodistria fino a Duino, dove volge al termine il litorale del Golfo, la fascia costiera era un susseguirsi di pastini abitati da vigne e ulivi. Il suolo? Marne e arenarie di origine eocenica. Un paradiso per mettere a dimora vigneti.

Il Breg è un microterritorio tra il Carso e il mare, pochi chilometri quadrati. Se Trieste era una città del vino Doc, il Breg era una sorta di Menzione Geografica Aggiuntiva o di Sottozona, se volessimo ragionare in termini di immaginarie denominazioni. Nella parte pianeggiante c’erano cereali e orticole. Tutto è massacrato dall’abbacinante sogno industriale. Gli enti pubblici concedono territori e le imprese fanno man bassa. I contadini mollano tutto e si fanno operai. Nella fertile piana di Zaule, al posto di grano saraceno, patate e cavoli cappucci, arriva la Grandi Motori (1951), enorme fabbrica per costruire i motori delle navi. Si costruiscono i depositi della Siot (1964), faraoniche cisterne cilindriche del diametro di decine di metri in cui stoccare il petrolio: dalle navi viene pompato qui e poi va verso l’Europa del Nord con l’Oleodotto Transalpino, un nome quasi simpatico, sembra di sentire gli jodel che echeggiano. Invece, se cammini la strada che costeggia i depositi, senti una puzza fetente di idrocarburi e basta. Ti trovi tra i giganti bianchi con la pancia piena di petrolio, alzi la testa in direzione del Carso e vedi il Breg che grida vendetta. Privato del suo fondovalle, restano intatti i pendii, abbandonati. Nel giro di cinquant’anni il bosco si è mangiato tutto.

Ma, se sei stai dentro il Breg, capisci che è ancora un paradiso. E che le piccole e sparse vigne di Zahar – oggi circa tre ettari e mezzo in totale – sono un miracolo di rigenerazione. Coltivate in maniera sensibile, salvano e rianimano scampoli di paesaggio. Sono il vino paesaggio. Inevitabilmente spezzettate, vivono nel regno della viticoltura antica, non meccanizzata, abbracciata al Breg. Segnano la potenzialità del luogo e il suo riscatto ambientale. Ne coccolano il futuro. 

Guardiamo l’uva, quasi matura. Malvasia, vitigno nomade, tipologia istriana. E poi vitovska, uva autoctona massima, a bacca bianca. Infine, refosco. Annata sovversiva il 2023. I grappoli di vitovska sono molto grandi come capita spesso. Di solito sono uno o al massimo due, mentre quest’anno arrivano a quattro per pianta. Mitja non si sa spiegare il fenomeno, mai visto prima. Il pensiero corre allo sfacelo degli equilibri in epoca di emergenza climatica, in questo caso almeno non è un danno. Ma è magra consolazione.

La prima annata in cui suo padre lo ha lasciato fare è quella del 2010. Il vino serviva nell’osmiza di famiglia: mescita e vendita diretta, concessa ai contadini dal tempo asburgico. Nel Breg, tra i borghi di Borst/Sant’Antonio in bosco e Muhov/Moccò, fino agli anni Ottanta c’erano ventidue osmize. Aprivano per brevi periodi, ed era ovvio che ci si potevano vendere soltanto il proprio vino e i propri salumi. Quella della famiglia Zahar è stata aperta fino al 2018, negli ultimi anni la gestivano Tanja e Mitja. Poi l’hanno chiusa per dedicarsi alle vigne, cercando altri piccoli appezzamenti, che a fatica vengono concessi perché, tristemente, si preferisce l’abbandono. Che tragedia. 

Il loro ultimo progetto è un piccolo agri ristoro per la vendita diretta del vino, sfuso e in bottiglia, e per accogliere chi lo vuole assaggiare, con prodotti di aziende agricole in regione, che sceglieranno con la loro etica e il loro gusto. Vi si terranno anche incontri e dialoghi pubblici. Tania ci tiene particolarmente: il vino lo vive come testimone culturale, come bandolo di storia e progettualità. Per questo hanno ristrutturato la vecchia stalla, sopra la cantina storica, costruita da Jozef Zahar a inizio Novecento, o anche prima, dice Mitja. I ricordi contadini spesso si sfilacciano perché non servono la costruzione di ingombranti memorie a uso monumentale. Che la famiglia sia sempre stata contadina, però, non c’è dubbio. Orto, piccola vigna, due mucche o due capre, poco altro. Si campava di quello, era un’economia frugale in cui il vino, insieme al latte, rappresentava l’unica entrata in denaro.

Fatica non ne mancava. Mitja si ricorda bene le giornate in cui andavano a fare il fieno, partendo la mattina presto, tornando per il pasto e poi facendo “il doppio turno” il pomeriggio. Eppure, mi dice, erano giornate bellissime. Mentre parla sembra di sentire l’odore dell’erba falciata, a mano. Ci andiamo, in quel prato. Là dove c’era l’erba ora c’è… No, stavolta no! C’è una bellissima vigna dedicata alla vitovska, l’ultima nata. Millecinquecento metri, a lato il bosco e un muretto a secco che il vicino dovrebbe sistemare perché sta cadendo a pezzi. Oltre, tre piante di ulivo. «È stato durante il lockdown che facevamo lavori in questo terreno, per impiantare il vigneto. In mezzo c’erano tre olivi secolari e non potevo pensare di abbatterli. Così, con tanto lavoro e tanta pazienza, li abbiamo trapiantati a lato della vigna. Quella stessa notte, era già marzo inoltrato, venne giù un freddo micidiale, tredici gradi sottozero. Ecco, pensavo, non sono riuscito a salvarli. E non mi davo pace». Invece passano i giorni e gli ulivi dimostrano che di quel freddo si sono fatti un baffo. Oppure il microclima del benedetto Breg li ha salvati. Chissà. Questo appezzamento è leggermente più alto, fa più fresco, si sente. Alle spalle del vigneto si apre la Dolina Glinščice/Val Rosandra, che è un’isola geologica, oggi riserva naturale. Sono lievi montagne, dalle pareti scoscese, paradiso dei climbers, e in fondovalle un torrente. Al tramonto le pareti rocciose si tingono di rosa. Rosandra da dove viene? 

Scorrazzando con l’auto di campagna di Mitja e Tania ci spostiamo a un’altra vigna. Questa gli è stata affidata dalla Comunella, soggetto popolare che amministra spazi agricoli o boscosi comuni. È più estesa, anche se la costruzione della superstrada, a servizio della zona industriale, ne ha mangiato via un pezzo e isolato, condannandolo all’abbandono, un altro. Qui è il regno del refosco.

E i vini come sono? Continuano il racconto. Uva raccolta a mano a giusta maturazione, mano leggera in cantina. Pressatura soft. Solforosa, il giusto pizzico. Legno in aumento, acciaio in diminuzione. Tempi rilassati di maturazione. Il suo progetto artigiano sfrutta le macerazioni con giudizio. La temperatura fresca deriva dall’acqua canalizzata da un vecchio pozzo scavato più di un secolo fa.

Ed eccoci. Arriva il momento dell’assaggio, gesto materialissimo che completa ogni conoscenza enoica. Il naso ha il suo momento. Ne ha diritto, quando si ascolta un vino: la storia e la geografia sono anche determinazioni sensoriali. 

Vitovska 2021. Bouquet aromatico di erbe mediterranee, timo, lievissima mentuccia. In bocca è tonda e piacevolmente salata. Ti accarezza ed è subito amica. Più rotonda della sorella carsica, figlia dei calcari.

Il contrappello territoriale lo fa la Malvasia 2022 che esalta soprattutto la sapidità dei suoli eocenici. Al naso e al sorso spinge con le sue varietali “istriane” in cui spiccano gli agrumi amareggianti come il bergamotto e poi un mineralismo totale, quasi iodio. È prepotente, a suo modo. Cerca spazio e sgomita. Ma una volta che ti si accomoda vicino, sarai felice di questa sua malvasiosa briosità.

Tra i bianchi, il podio è per il Sonček. Nasce in un vigneto monumento, di oltre ottant’anni d’età, in cui, come si usava, abitano diversi vitigni, salvezza dell’annata: se uno fosse andato male, qualcosa sempre si sarebbe fatto, con gli altri. E allora malvasia, vitovska e tocai. Ne nasce questo piccolo capolavoro di un tenace vignaiolo del Breg, distillato di profumi mediterranei. Annata 2021. Mineralità che galoppa. Viaggia sul filo dell’ossidazione, restando in perfetto equilibrio, cosa non facile né scontata nell’ormai popolato regno delle macerazioni. Carezze fluide, persistenza. Un coup de foudre, questo “piccolo sole”, vino lucente e meditativo.

Il Refosco 2022 senza sgomitare e punzecchiare raggiunge con freschezza le papille gustative. Ho assaggiato, pensa, anche una microproduzione di Refosco 2022, autore Jalen, il figlio dodicenne di Tania e Mitja, un folletto del Breg dai grandi occhi azzurri, biondo, timido, sorriso aperto e generoso. Da un paio d’anni fa il suo vino. Poche bottiglie, con determinazione e per sua autonoma scelta. Assaggio, lo confesso, con aria interrogativa. E tiè: ci scopro un bicchiere con un proprio stile. Tania lo serve leggermente fresco e, in serata estiva, il profumo di lampone e ribes rosso è rinfrancante, in bocca ha la giusta acidità, è gentile e riservato, ma di gran cuore. Assomiglia proprio a Jalen.

Finisce la serata. Borst è buio e silenzioso. Ai suoi piedi le vigne dormono. Rebeldía e resistenza prendono un significato diverso e palpitante. Mitja Zahar e Tania Stefani nemmeno si accorgono di essere nuovi partigiani del Breg. Ma è proprio questo il bello della storia. Que viva el Breg!

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 30
18 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 3 Feb 2024

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