Indagine su quel ristorantino al di sopra di ogni sospetto.
Parte seconda (Un lavoro di documentazione che continua).
Di Eat the Rich

La turistificazione è una brutta bestia. Trasforma i centri storici d’Italia in un’unica città sempre uguale nella quale il cibo è leitmotiv, entità commerciale da proporre in salse magari tra loro differenti ma con un contorno immancabile, sempre uguale: sfruttamento della manodopera, appiattimento delle differenze, mercificazione spietata del senso stesso del cibarsi

Sono passati ormai diversi mesi da quando iniziavamo a diffondere le prime copie, allora cartacee e solo successivamente anche in forma digitale, del questionario di inchiesta sul lavoro nella ristorazione che circa un anno fa avevamo iniziato a impostare. Certo una riflessione critica sullo sfruttamento e sul lavoro, così come un ragionamento sulle forme possibili di resistenza e di organizzazione, non potrà mai pretendere reale esaustività e certamente non potrà emergere dall’analisi di un singolo settore, per quanto questo si configuri da diversi anni, soprattutto nei contesti urbani, come vero e proprio volano economico e paracadute in grado di assorbire parzialmente gli effetti della crisi di altri settori.

Allo stesso modo, non si potrà credere di poter articolare soluzioni possibili o pensare pratiche efficaci solo con degli strumenti spuntati presi a prestito dalla statistica e con la pratica dell’inchiesta, per quanto militante questa possa essere.
Eppure, non per questo abbiamo rinunciato a un confronto e un ragionamento continuo su quello strumento e le possibilità che poteva aprire, consapevoli che anche una prima e parziale fotografia di situazioni tristi, vicende complesse e purtroppo diffuse, sarebbe stato un buon risultato da cui partire. Alcuni elementi d’interesse sono sicuramente emersi dai dati raccolti fino ad ora e soprattutto dalla discussione portata avanti collettivamente. 
La Terra Trema ci aveva già dato la possibilità di presentare la nostra inchiesta sul numero di Aprile, ed eccoci ora di nuovo su queste pagine a riportarvi l’avanzamento del nostro lavoro.

Allo stesso modo, non si potrà credere di poter articolare soluzioni possibili o pensare pratiche efficaci solo con degli strumenti spuntati presi a prestito dalla statistica e con la pratica dell’inchiesta, per quanto militante questa possa essere.
Eppure, non per questo abbiamo rinunciato a un confronto e un ragionamento continuo su quello strumento e le possibilità che poteva aprire, consapevoli che anche una prima e parziale fotografia di situazioni tristi, vicende complesse e purtroppo diffuse, sarebbe stato un buon risultato da cui partire. Alcuni elementi d’interesse sono sicuramente emersi dai dati raccolti fino ad ora e soprattutto dalla discussione portata avanti collettivamente. 
La Terra Trema ci aveva già dato la possibilità di presentare la nostra inchiesta sul numero di Aprile, ed eccoci ora di nuovo su queste pagine a riportarvi l’avanzamento del nostro lavoro.

Festival delle Cucine Popolari
La prima discussione sul mondo della ristorazione ad averci coinvolto si tenne a Pesaro durante la terza edizione del Festival delle Cucine Popolari Autogestite. In quel contesto ragionammo per la prima volta della possibilità di un’inchiesta militante in un settore che in parte conoscevamo per esperienze personali, ma su cui non avevamo mai riflettuto collettivamente.
Quest’anno il festival, giunto alla quarta edizione, si è svolto a Napoli. Le specificità del contesto partenopeo e dello sviluppo turistico della città hanno fatto sì che la discussione riguardante il settore ristorativo tenesse necessariamente conto delle connessioni tra lo sviluppo di questo e le modificazioni dello spazio urbano legate all’incremento del numero di visitatori. 

Prendendo quindi le mosse dall’impatto che la turistificazione sta avendo nelle zone “più appetibili” delle città italiane, in contesti anche molto diversi tra loro, durante i due giorni di festival si è parlato molto di lavoro, un tema da cui non si sfugge, problema comune alle vite dei più. 

Il fittissimo confronto con le variegate realtà che abbiamo conosciuto e ritrovato al festival delle cucine ci ha fatto tornare a riflettere su quello che stavamo facendo e sul senso che avevamo deciso di dargli, oltre a darci la conferma di quanto sia sempre più necessario ricercare degli strumenti efficaci e riproducibili per contrastare lo sfruttamento violento e rampante che si afferma con crescente foga tra le cucine, le sale apparecchiate e i banconi imbanditi delle città che viviamo ogni giorno. 

Il “campione” con il quale abbiamo interagito si presenta immediatamente caratterizzato da alcune peculiarità che ha senso esplicitare per restituire un quadro che già di per sé ci mostra alcuni elementi d’interesse. Il primo dato che ci ha fatto riflettere è quello relativo alla provenienza delle persone che hanno partecipato all’inchiesta. Seppur nelle cucine e nei bar di tutta Italia la componente di lavoro migrante è decisamente molto significativa, la quasi totalità delle persone che hanno dato il loro contributo a questo lavoro di inchiesta è invece di origine italiana. Senza alcuna volontà di avanzare giudizi arroganti e superficiali, e tenendo ovviamente conto di alcuni limiti “tecnici” connaturati alle modalità di ricerca che abbiamo utilizzato (per citare solo il più evidente, il questionario è disponibile solo in lingua italiana), crediamo che sia altrettanto evidente la maggiore ricattabilità del lavoro migrante in generale, e che sia più difficoltosa la presa di parola da parte di chi vive questa condizione.

Rispetto al dato anagrafico ci siamo invece trovati ad avere a che fare con persone per la quasi totalità di età inferiore ai quarant’anni. Probabilmente questo dato può essere connesso alla forte presenza di persone che si trovano a lavorare nella ristorazione per integrare il proprio reddito complessivo o per mantenersi durante il proprio ciclo di studi, potrebbe essere un indicatore di componenti strutturali logoranti proprie del lavoro in un settore che necessita precarietà, paghe basse e un elevato numero di ore, condizioni che lo rendono spesso un passaggio temporaneo, di facile accesso ma con poche prospettive. 
Sotto il profilo geografico invece, seppur la nostra analisi si sia sicuramente diffusa con più efficacia sul territorio bolognese rispetto al quale si nota un leggero sbilanciamento, abbiamo riscontrato una certa omogeneità nella distribuzione su tutto il territorio nazionale.
Proviamo ad addentrarci più a fondo nella materialità del lavoro nella ristorazione, cercando di sintetizzare gli aspetti più interessanti e caratterizzanti di questo settore.
Non stupisce affatto come una cospicua porzione delle storie che ci sono state riportate attraverso il questionario non fa altro che confermare le solite terribili “banalità” sul lavoro contemporaneo che, ne siamo sicuri, la gran parte dei lettori avrà già ben presente. Bassissima contrattualizzazione, garanzie al minimo anche in presenza di un contratto, monte ore sfiancante, paga oraria a livelli minimi e un ambiente di lavoro che troppo spesso è terreno estremamente fertile per molestie e atteggiamenti estremamente aggressivi da parte dei padroni.
Già, niente di nuovo rispetto alle condizioni di sfruttamento alle quali chi lavora nella ristorazione (e ovviamente non solo) è da troppo tempo costretto a subire.
Per un sonoro 40% dei partecipanti un qualche livello di contrattualizzazione è del tutto assente, mentre per la componente restante il contratto assume tutte le più svariate forme caratteristiche della precarietà stile XXI secolo (a chiamata, a tempo determinato con i canonici e non certo scontati rinnovi, con ritenuta d’acconto). Chi ha affermato di aver avuto un contratto a tempo indeterminato è ben al di sotto della soglia del 10%. Inoltre, al di là del puro dato formale, solo in una manciata di occasioni mansioni, orari e diritti stabiliti dal contratto, dove presente, si traducono in garanzie reali.
Uno dei dati più allarmanti riguarda la retribuzione oraria effettiva, le testimonianze raccolte ci mostrano una situazione che potrebbe definirsi cupa solo se la si volesse minimizzare. Non si può descrivere altrimenti un dato che riporta paghe che vanno dai 3 ai 7 euro netti all’ora. 

Una questione che dovrebbe quantomeno far riflettere chiunque si trovi a varcare la soglia di un bar o di un ristorante, snodi finali di una filiera che, dalla raccolta delle materie prime al servizio della pietanza cucinata e impiattata, grava per larga parte sulle condizioni di lavoratrici e lavoratori. Se molte delle narrazioni mainstream sul lavoro indicano nell’agroalimentare l’ambito di azione di queste brutali dinamiche, e nella figura dello stagionale agricolo l’unico soggetto costretto a condizioni lavorative e di vita di questa portata, queste semplificazioni del mondo del lavoro non tengono conto del fatto che molto più spesso di quel che si pensa condizioni molto simili le si possono riscontrare nelle cucine e nei retrobottega di molti dei locali più attraversati dei più infiocchettati centri urbani.

A qualcuno verrà sicuramente da chiedersi “ma come si fa a vivere con un salario del genere”. Ebbene la risposta che ci è stata data è ovviamente semplice e lineare, e ci porta dritto a un’altra questione di primo piano: l’orario di lavoro. La riposta alla suddetta domanda è come accennavamo molto semplice: lavorando in media più di 50 ore a settimana, come ha prontamente risposto la metà dei partecipanti all’inchiesta. Quasi l’80% di questi ci fa comunque notare che buona parte di queste ore di lavoro non sono affatto previste dagli accordi, contrattuali o meno che siano, e ovviamente la parola “straordinario” è recepita come effettivo incremento della paga oraria in uno scarsissimo 15% delle risposte che abbiamo ricevuto. Per tutti gli altri quella parola non rimanda ad un corrispettivo economico, ma rimane una minuscola e inefficace nota appuntata in mezzo alle pagine di quel foglio di carta firmato al momento dell’assunzione. 

Anche l’organizzazione dei turni di lavoro risente pesantemente dei ritmi serrati imposti da proprietari e gestori per inseguire fino all’ultimo cliente disponibile. Se la settimana lavorativa di 5 giorni, già magra consolazione per chiunque volesse avere del tempo libero da impiegare secondo volontà, pareva una conquista ormai affermata nella ristorazione, i giorni di lavoro finiscono per essere almeno 6 per settimana, in un’altalenante e affannato avvicendarsi di singole giornate libere utili solo al recupero delle condizioni fisiche che permettano una nuova settimana di turni esorbitanti.

Come già accennato, quel che ci ha mosso nel pensare l’inchiesta non è affatto un interesse di tipo statistico. Certamente i dati che abbiamo ottenuto e analizzato contengono anche un fondamento analitico, eppure il senso che abbiamo dato a questa pratica è piuttosto legato alle possibilità di incontro e scambio che questo strumento ci ha fornito, alla sua capacità di fornirci canali praticabili di organizzazione e resistenza collettiva.

Lavoro d’inchiesta e lotta
Il lavoro di inchiesta non si fermerà dopo questi mesi, crediamo sia ancora necessario mappare e conoscere la situazione variegata e complessa che ci troviamo di fronte. Scommettiamo però sulla possibilità di tradurre nei prossimi mesi questo processo di raccolta dati e implementazione di conoscenze in possibilità di lotta e organizzazione collettiva.

Non è nostra intenzione sostituirci in alcun modo a strutture sindacali o para-sindacali, non soltanto perché intravediamo i limiti di questo tipo di azione in contesti in cui atomizzazione, precarietà, mobilità ed isolamento la fanno da padrone, ma anche per l’insufficienza delle nostre conoscenze in ambito giuridico. Crediamo però che l’estremo livello di sfruttamento che si riscontra nel settore della ristorazione dia il polso della ricchezza di contraddizioni e possibilità che si annidano in questo contesto. Sono note le difficoltà che si possono incontrare nel mettere in campo percorsi di mobilitazione che riguardino contesti così frammentati e che non individuino come controparte un unico soggetto definito (come potrebbero essere le amministrazioni o le politiche di un governo) ma una pluralità di padroni e padroncini. Tuttavia nell’ultimo anno alcuni episodi avvenuti in Italia e non solo ci fanno credere che delle forme di organizzazione dal basso contro questo modello di sfruttamento siano possibili oltre che necessarie. 
Ci riferiamo da un lato alle straordinarie mobilitazioni (a volte anche dagli esiti contraddittori) che in diverse metropoli europee si sono articolate contro il sistema delle piattaforme del food-delivery, un fenomeno che ci parla della possibilità di organizzarsi e pretendere diritti collettivi a fronte di un sistema dove il ritrovarsi soli a fronteggiare situazioni differenziate costituisce uno dei maggiori elementi di ricatto (insieme a quello della precarietà e della competizione forzata, che porta i riders a sfrecciare sulle strade rischiando la vita e alcune volte perdendola, come a Barcellona poche settimane fa e a Bologna qualche giorno dopo).
Dall’altro lato crediamo che piccole iniziative, come quella che a Torino ha portato alla costituzione di un presidio per richiedere il pagamento di stipendi arretrati al cuoco di un ristorante, dimostrino che è possibile attivarsi anche oltre i canali della giustizia e attaccare l’immagine e la quotidianità di questi luoghi di sfruttamento, provocando danni significativi all’immagine delle aziende.

È notizia di pochi giorni fa quella di un pestaggio razzista ai danni di un giovane cameriere ghanese in una pizzeria a Bologna. Cinque militari, fuori servizio, tutt’altro che ironicamente operanti in città nell’ambito del servizio di supporto alla sicurezza “Strade sicure”, dopo aver insultato il cameriere con offese razziste e minacciato lo stesso con frasi come “ti facciamo perdere il lavoro” (anche questi schifosi soggetti conoscono bene la facilità con cui un cameriere può essere scaricato), hanno pensato bene di aggredirlo fisicamente scagliandosi contro di lui e lanciandogli persino una sedia addosso. Un ulteriore elemento increscioso in questa vicenda, che mette i brividi, riguarda il comportamento e i commenti della proprietaria dell’esercizio che si è da subito premurata di difendere i militari definendoli clienti abituali minimizzando quanto accaduto. Quello che la padroncina in questione si auspica è che i militari tornino a chiedere scusa e ripaghino i danni al bancone provocati, delle condizioni del cameriere non si preoccupa di certo, in fondo è solo un numero nella grande industria della ristorazione che può esser presto rimpiazzato.
La nostra speranza è che lavori di inchiesta come quello che stiamo portando avanti possano scatenare processi di lotta e solidarietà per trasformare ogni numero in una storia, necessariamente collettiva.

Invitiamo tutte/i a continuare a promuovere e seguire gli sviluppi dell’inchiesta sul nostro blog e sui social media. 

da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 13
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori


Last modified: 20 Ott 2019

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