Imprenditoria sociale e industria umanitaria all’inizio dell’era digitale e delle emergenze.
di LTT
disegni di Cyop&Kaf

Non è la coscienza degli uomini
che determina la loro vita,
ma le condizioni della loro vita
che ne determinano la coscienza.
Karl Marx, Per la critica dell’economia politica

Questa civiltà sta per crollare.
Siamo all’inizio di una nuova era, digitalizzata ed edificata su emergenze, crisi, eccezioni normative. Contingenze che si susseguono, in un continuum, scandite da leggi, decreti, trattati, misure di confinamento e contenimento. Le parole riecheggiano: emergenza climatica, emergenza alimentare, emergenza migratoria, emergenza sanitaria. Emergenze che si dovrebbero affrontare e superare ma che si dimostrano eccezioni di cui disporre, da osservare, da (far) rispettare. Circostanze politiche ben lungi dall’essere affrontate, si dilatano nel tempo, cronicizzate per divenire nei fatti il loro contrario: l’ordinario, il permanente, il sommerso.

Col rischio di sembrare bruschi e ideologici, ma non volendo dar spazio a malintesi, diciamo che responsabile unico delle emergenze è il capitalismo. Un capitalismo ben aggiornato, che dopo aver generato l’ossimoro, lungi dal superarlo o dal risolverlo, lo contiene, lo amministra, lo alimenta e mette a profitto.

Le politiche, le rappresentanze sociali, le narrazioni partorite in questi tempi hanno a disposizione un lessico vastissimo, a volte crudele altre più democratico ma, nella sostanza, concordante: i deboli, gli svantaggiati, i poveri, le povertà, gli ammalati, gli anziani, i disadattati, i migranti sono le principali vittime delle emergenze.
Scarti, rifiuti
della società non sono solo imprecazioni fascio leghiste, ma sintomi di vere e proprie implicazioni progettuali: perché come rifiuti urbani queste persone sono trattate. Stoccate e differenziate. Come avviene per i rifiuti solidi urbani e quelli speciali servono aziende specializzate per il loro smaltimento.
Chi finisce nelle periferie economiche e sociali della popolazione si trova a diventare dunque materia prima di nuove occasioni di profitto, oggetto di nuovi processi lavorativi.
Chi finisce nelle periferie economiche e sociali della popolazione diventa anche considerevole fonte di affari, tanto che in molti avranno ambizione di occuparsene, finanche la criminalità organizzata.

Nella gestione delle emergenze vengono investiti fondi pubblici e fondi privati (di fondazioni, organizzazioni filantropiche e simili), assegnati ad enti pubblici e privati, con la possibilità di testare su vasto raggio modalità di azione assistenziale, non escludendo, nei fatti, avanzate sperimentazioni sociali di riconoscimento e controllo, accelerandole anche.
Lo abbiamo già visto. Accadde e accade per fronteggiare l’emergenza migratoria istituendo e ovviamente gestendo svariate cattedrali del contenimento emergenziale, Cie, Cpr, Hotspot, Cara, Cas e Sprar. Luoghi, nella pratica, mai di cura dell’emergenza ma di tracciamento, di controllo e reclusione. Proprio su quel dispositivo ormai rodato, con la pandemia si è provveduto a dare l’ennesima spinta[1].
Un dispositivo, noto, scontato, che non solo ha dirottato e contorto la questione emergenziale ma ha trascinato con sé la fauna specialistica e specializzata che costituisce l’ossatura delle strutture di cui è chiamato a disporre, aggiungendosi ai prodromi della mutazione ontologica del lavoro sociale e umanitario[2].

«Non possiamo girarci dall’altra parte».
Nell’affrontare le emergenze, si dice, i governi non possono fare da soli. Occorre la collaborazione di tutti, la presa di coscienza. Servono aiuto e complicità della società civile, serve affrontare insieme queste guerre epocali. Per questo, al fianco delle autorità di Stato, scendono in campo il volontariato, i professionisti del privato sociale e le organizzazioni benefiche e non governative, in difesa del pianeta e degli esseri viventi.
Nell’urgenza diventa impossibile ogni azione che sia diversa dal ricucire velocemente le lacerazioni.
Le declinazioni umane/non umane del rapporto tra chi subisce l’emergenza e chi la gestisce sono molteplici, molte delle quali animate da una reale presa a cuore (anche politica) delle istanze da affrontare e quelle affrontate. Febbrilmente si fa fronte a un’esigenza vitale innegabile. Innegabile però, nella proclamazione dell’emergenza, è anche il fare con urgenza, agire alla svelta, senza dubbi, senza domandare, senza domandarsi.
Allo stato d’impellenza si aggiunge un drastico tracollo delle possibilità sociali relazionali in presenza e la condizione passivizzante che da questo deriva, una reclusione che letteralmente affoga, toglie fiato, a qualunque possibilità sia essa affettiva, pubblica, lavorativa. Con conseguenze devastanti.
Nella foga di quantificare, nella fretta di affrontare, nella drastica riduzione di contatti fisici accelera anche la trasformazione delle singole esistenze in altrettanti codici sorgente. Dati, prima che vite, numeri, algoritmi.

Tra le forme di azione solidale organizzata, che si affacciano nel nuovo welfare, troviamo anche esperienze di movimento/dal basso animate da nuovi volontari che arrivano da esperienze pregresse (o ancora in essere) di militanza politica. La figura del militante (già di suo controversa) si trasforma adesso in volontario.
Un passaggio di testimone anche storicizzato, se vogliamo. Alcune di queste nuove leve diventeranno i lavoratori e gli amministratori delle nuove imprese sociali affiancandosi alle collaudate esperienze di volontariato. Bisogna prenderne atto. Per questo è importante mettere allo specchio queste con le prime esperienze improvvisate nate negli anni Settanta come imprenditoria militante e valoriale, per inventare e costruire relazioni di aiuto. L’imprenditoria sociale delle prime ore si trova oggi ad affrontare una fase del capitalismo in aperta controtendenza rispetto a quella in cui aveva mosso i primi passi; alcune di queste imprese hanno chiuso i battenti, altre sono duramente impegnate a difendere il proprio mito originario, non solo per preservare se stesse ma ancor di più per difendere e tenere in vita la cultura che le aveva generate[3].
Per poter conservare il proprio spazio, i propri accreditamenti, le proprie donazioni, queste esperienze (di matrice cattolica, laica, politica), che nei fatti hanno messo le fondamenta all’attuale assetto del terzo settore, oggi devono costruire alleanze, ma anche scontri, con la neo imprenditoria sociale dalle matrici ancor più complesse.

Vittima è parola di etimologia oscura, potrebbe derivare dall’uso di offrire pasti in onore agli dèi, per quietare una fame implacabile nel rito del sacrificio, nel fare sacralizzato.
Le vittime delle emergenze, in quanto tali e soprattutto in tempi di privazione totale, hanno poco a cui appigliarsi, ogni possibilità di fare è a loro preclusa, sconsigliata, se va bene devono/possono appellarsi e sperare nell’aiuto di volontari e in un apparato preposto costituito da operatori di cooperative, associazioni, onlus, fondazioni, agenzie, ong, comunità, centri e case d’accoglienza.
Tutte queste organizzazioni popolano il territorio del lavoro sociale innalzando sempre più improbabili bandiere ognuna con il suo logo e ognuna con i suoi protocolli di trattamento degli utenti-clienti e dei propri lavoratori[4].

È centrale in questo scenario la questione posta da Michel Foucault nello studio della nascita delle istituzioni disciplinari:«è possibile prendersi cura di una persona, delle sue difficoltà di vita, del suo malessere, senza necessariamente controllarla? Foucault si sa come rispose: ciò che oggi ci appare naturale, e cioè il baratto tra la libertà della persona e la richiesta di cura, è stato introdotto tra il XVIII e XIX secolo. Ma si sa anche che in Italia Franco Basaglia e i suoi collaboratori, prendendone atto, rimisero in discussione questo assunto. Le istituzioni che tolgono la libertà alle persone non si dispongono alla cura – dissero – ma alla correzione e al controllo»[5].

Luca Rastello, dei Buoni (Chiarelettere, 2014) e de La Guerra in casa (Einaudi, 1998), in una presentazione disse: «La relazione di aiuto è sempre una relazione di potere, perché l’aiutato è in ginocchio (in condizione di minorità sempre) e l’aiutante è in piedi, ma quando la relazione è uno a uno è reversibile, l’aiutante un domani potenzialmente avrà bisogno anche lui (perderà un lavoro, starà male qualcuno in famiglia, si ammalerà) e in quel caso ci sarà l’aiutato a dare una mano. Ma quando la relazione di aiuto si organizza, si istituzionalizza, diventa struttura, la relazione di aiuto diventa irreversibile, non risarcibile, si crea un mostro, anche lessicale, e l’aiutato diventa utente e l’utente diventa una categoria nel nome di cui si parla, ma che non parla, che deve essere riconoscente, che presta la sua voce ai suoi rappresentanti, deprivato di cittadinanza, destinato per tutta la vita al nucleo della relazione di aiuto. Questo è un dato di fatto. Io non dico che non bisogna istituire la relazione di aiuto e nemmeno istituzionalizzarla, sto dicendo che bisogna farlo con la consapevolezza che si costruisce un bene insieme a un male e sono di pari forza, che a volte il male è anche più forte, ma non per questo non si può fare anche quella parte di bene perché ci sono delle necessità immediate a cui rispondere (tipo scappare da una guerra). Però bisogna tenere un occhio critico, violentemente, spietatamente – spietatamente! – un occhio critico sempre, di fondo, rivolto su se stessi. Perché il rischio in questi casi (nella Guerra in casa scrivevo a quanti crimini è disposto uno sguardo innocente pur di preservarsi innocente) è di crearsi una patente di auto legittimità che diventa ideologia, si diventa intangibili, intoccabili, ci si sente depositari di un bene che non può essere discusso e questo è pericolosissimo perché si è contemporaneamente depositari di una relazione di potere che non può essere discussa»[6].

Moltissimo. Alla luce di ciò siamo qui a chiederci di cosa parliamo quando parliamo di no profit, volontariato, associazionismo. Qual è e quale sarà il ruolo di queste organizzazioni dopo la polverizzazione dello stato sociale nell’era delle emergenze? Che rapporto stanno attivando con il modello sociale dominante? Dove e quando danno spazio a una posizione critica (del potere e di se stesse)?
Al di là dei miti originari, della retorica, dell’emergenza, sarebbe utile ragionare sul ruolo, ai giorni nostri, che svolgono effettivamente queste nuove (e vecchie) organizzazioni. In questi termini, è possibile o no una critica della solidarietà[7] istituzionalizzata e a quella istituzionalizzante?

L’uomo è ciò che mangia
Ludwig Feuerbach

Sono nodi da sciogliere. Alcuni dei quali strettissimi perché i lembi sono tesi dall’impellenza, perché all’emergenza sanitaria si è affiancata da subito l’emergenza alimentare.
Le istituzioni, le organizzazioni caritatevoli storiche che si occupano della raccolta di generi alimentari, delle eccedenze produttive agroindustriali e della GDO e della loro ridistribuzione a persone indigenti, hanno lanciato, coralmente, preoccupanti allarmi per una crisi economica intollerabile, una povertà esponenzialmente crescente con milioni di persone in difficoltà nell’accedere (anche) al cibo.
Ne è derivato un susseguirsi di campagne di crowdfunding e il propagarsi di centinaia di nuove esperienze e progettualità organizzate per il recupero, il confezionamento e la distribuzione di generi alimentari e pasti alle persone bisognose.

La carità, beato chi la fa e tristo chi la riceve.
Proverbio

Una storia che ha ragioni antiche. Nel 1600 Vincenzo de’ Paoli (proclamato Santo un centinaio di anni dopo la sua morte) fu, forse, il primo a costruire un intervento assistenziale e caritatevole organizzato in Francia. Fu lui a istituire le Dame della Carità, gruppo di volontari costituito soprattutto da donne atto all’aiuto dei poveri. A Milano la Compagnia delle Dame della carità di San Vincenzo de’ Paoli nasce nella seconda metà dell’Ottocento con la distribuzione quotidiana e domiciliare di minestre.
Vincenzo de’ Paoli per la popolarità delle sue opere divenne prima consigliere al servizio e all’assistenza del Re Luigi XIII di Francia, le nobiltà lo aiutarono in ognuna delle sue missioni e, dopo la sua morte, fu fatto Santo. Oggi in tutte le metropoli, in Italia e nel mondo, sono migliaia le minestre, i pasti e i pacchi alimentari distribuiti ogni giorno dalle più svariate organizzazioni caritatevoli. Oggi i fondatori delle opere caritatevoli contemporanee in che rapporti stanno con i propri finanziatori e con i governanti dei paesi in cui operano? Sono anche loro in odor di santità?


L’emergenza non lascia il tempo a dubbi. Si sofferma molto sui numeri, meno sulle ragioni e sulla qualità. Tanti gli operatori e le operatrici che negli anni hanno dovuto prendere atto che l’assistenzialismo contribuisce a produrre l’assistito. La sola carità, alla lunga, cronicizza lo stato d’indigenza e non favorisce l’autodeterminazione delle persone. E non è detto che riempia la pancia.
Sappiamo quante tonnellate di derrate vengono raccolte dalla grande distribuzione, dall’agroindustria, dai consorzi, dalla ristorazione e dall’UE; sappiamo quanti pasti sono stati confezionati e distribuiti, quanti soldi sono stati raccolti sulle piattaforme digitali o con le collette, raramente vengono raccontati la qualità del cibo, la filiera, i menù, le opinioni dei destinatari.
Nei migliori dei casi c’è un’attenzione ai precetti religiosi, ma non è scontato. Già più difficile è l’attenzione per le intolleranze alimentari. Di certo l’assistito non può scegliere.
Significative le parole della responsabile di un Centro di Accoglienza Speciale per richiedenti asilo quando alcuni ospiti si lamentarono della qualità e del tipo di cibo che gli veniva portato: «La spesa la dobbiamo fare noi perché se poi qualcuno sta male la responsabilità è nostra», alla risposta che sarebbe stato importante ascoltare le richieste, fare magari insieme la spesa o farla fare a loro, la signora si innervosì: «Sono rifugiati ma devono fare quello che diciamo noi, non possono pretendere. Devono conoscere la nostra cultura e imparare a vivere in Italia, noi rispettiamo le tabelle con i valori nutrizionali della Prefettura». Oppure quando qualcuna delle famiglie cui veniva consegnata la cena si lamentava del menù perché ai figli non piacevano alcuni piatti, l’operatore spazientito rispondeva: «In più che vi portiamo a gratis da mangiare avete anche il coraggio di lamentarvi? Questa è la vostra riconoscenza?».
A caval donato non si guarda in bocca.

Nell’intimità di un agire quotidiano necessario com’è il mangiare, s’insinua una verticalizzazione dolorosa, persistente come un marchio a fuoco, umiliante come può essere sostituire all’agirsi il farsi agire.
L’aiutato deve farsi andar bene il menù del giorno offerto gratuitamente dalla trattoria della solidarietà. L’aiutante, magari con lo stipendio per il servizio di ristorazione svolto, deciderà per sé cosa e dove mangiare, se al ristorante vegano o a quello giapponese oppure in quello stellato, se si farà consegnare dal servizio delivery la cena, deciderà cosa e quando cucinare, dove acquistare le materie prime (se al discount o direttamente dall’agricoltore bio) o se magari quel giorno salterà il pasto, per un benefico digiuno.
Operatori disillusi e avviliti dal costante confronto con un’indigenza che sembra marchiata da un fine pena mai, sbottarono: «Perché i soldi raccolti non li diamo direttamente ai nostri utenti?», «Perché non diamo loro i soldi e cucinano loro per noi?». Già. Perché non può accadere?

Ricchi e buoni.
In vetta alla classifica mondiale dei filantropi più generosi abbiamo Bill Gates, la famiglia Bezos, le immancabili Amazon, Ebay, Facebook, oltre alle solite fondazioni d’impresa e bancarie (queste sono i leader in Italia ed Europa).
Vandana Shiva nella prefazione a Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, un libro di Nicoletta Dentico, scriveva: «Cinquecento anni fa la religione della chiesa cattolica era utilizzata per giustificare la violenza della colonizzazione. La nuova chiesa è plasmata dall’1%. È la religione dei soldi: fare soldi sempre e comunque. Le tecnologie e la macchina del denaro sono state elevate fino a farne un credo assoluto, nel campo del cibo e dell’agricoltura come in quello della salute, dell’informazione e della finanza. I filantrocapitalisti sono allo stesso tempo i nuovi papi e i nuovi sacerdoti. In quanto 1% sono anche i nuovi Re e Regine, i nuovi sovrani. Sono i nuovi Cristoforo Colombo, avventurieri e mercanti. E provano anche a essere Dio quando reclamano di “inventare” la vita e di “geo-ingegnerizzare” il pianeta. 
La “tecnologia” è stata mistificata e fatta assurgere a nuova religione per sottomettere e controllare. (…) Bill Gates è sempre in agitazione alla ricerca di nuove opportunità per utilizzare i suoi miliardi tramite la filantropia e creare nuove colonie di cui impossessarsi con le sequenze digitali dei sistemi viventi. Minaccia convenzioni internazionali delle Nazioni Unite come la Convenzione sulla Diversità Biologica e il Trattato sulle Risorse Genetiche delle Piante per il Cibo e l’Agricoltura. È il nuovo Colombo che rivendica di inventare ciò che in realtà già esisteva, e harubato. Cancella la varietà del mondo vivente e della vita sociale, costruisce “il vuoto” come licenza di conquista, e poi costruisce il suo Impero sulla vita». 

La stessa Nicoletta Dentico aggiungeva: «I filantropi che salvano il mondo la fanno da padroni nella gestione della pandemia grazie all’impenetrabile complesso industriale vincolato alle loro donazioni e al potere di seduzione che esercitano, mentre la comunità internazionale si dimena nel caos di micidiali pulsioni nazionaliste e buona parte della società civile, ormai assoggettata, dipende dai filantroprofitti per continuare a vivere. La pandemia ci impone un ragionamento di senso sul filantrocapitalismo, perché questo ristretto entourage è connesso a doppio filo con il mondo della tecnologia digitale, della biotecnologia, della finanza, i tre ambiti che definiranno il futuro del pianeta».

L’1% della popolazione del pianeta detiene ricchezza pari a quella del restante 99%. In quell’1% ci sono i proprietari dei dispositivi, delle applicazioni e delle piattaforme digitali di cui si servono quasi tutti gli umani e tutte le istituzioni pubbliche e Statali. I proprietari di queste industrie profilano e controllano quasi ogni aspetto delle nostre vite e in più occasioni determinano e influenzano le nostre scelte. Bill Gates è il più grande proprietario di terreni agricoli d’America. Questa oligarchia digitale ed economica è diventata anche proprietaria di gran parte del nuovo welfare mondiale.
In Italia, con l’ultima legge di bilancio, sono stati messi a disposizione 20 milioni di euro e 200 mila smartphone per il kit digitalizzazione di famiglie con un reddito Isee sotto i 20mila euro. Queste potranno dotarsi per un anno di un cellulare in comodato d’uso connesso a internet, con incluso un abbonamento a due organi di stampa e l’app IO, applicazione disposta dal Ministero dell’Innovazione per la digitalizzazione della maggior parte dei servizi della pubblica amministrazione offerti ai contribuenti. Per ottenere il kit occorre creare, ovviamente, un’identità digitale del sistema pubblico (spid)[8].
Il 12 gennaio il profilo Twitter ufficiale dell’applicazione IO annuncia che «i numeri di #IOapp dimostrano che la digitalizzazione dei servizi pubblici è in atto. Il #Cashback ha fornito una spinta decisiva». I numeri sono questi: 9,3 milioni di download complessivi, 58% degli accessi eseguiti tramite spid (il restante 42% con carta d’identità elettronica) e 7,6 milioni di strumenti di pagamento attivati appositamente per il Cashback di cui 5,1 milioni di carte registrate per pagare tributi e servizi pubblici (carte di credito, carte di debito, bancomat e applicazioni supportate).

Milioni di persone (e le loro identità digitalizzate) tracciate e controllate dalle applicazioni digitali e mantenute in vita (nuda vita), assistite e stoccate dai nuovi sistemi di welfare. Povere ma connesse. Sono garantiti carità e uno schermo da tenere sempre davanti. Vorrà dire qualcosa, o no?

Perché, con tutto quello che c’è da fare, perdersi nella fatica dell’analisi sociale e politica e farsi rodere dal tarlo dell’autocritica?[9].

Nella verticalizzazione e digitalizzazione dei servizi, delle comunicazioni, della programmazione dell’azione sociale e solidale, nella redazione delle rendicontazioni e nelle narrazioni promozionali sembra si stia perdendo la grande occasione di ascoltare/far fare e relazionarsi. Sembrano cementificarsi pericolosi verticismi.
Forse più per convenzione che per altro si dice che manca il tempo per l’interrogarsi e l’interrogare. Ma una narrazione di ritorno è invece dovuta, necessaria, e che sia detta in prima persona, e che esuli dalla riconoscenza, dalla pietas dei volti criptati all’atto della consegna del pacco, dall’emergenza che asfalta ogni cosa, una riflessione sulle implicazioni messe in atto nella relazione di aiuto, sulla reale reciprocità che questa agisce. Per provare a raggiungere un traguardo diverso da quello dell’obiettivo economico per la sostenibilità del progetto. Mobilitando persone e risorse fuori dalla retorica delle campagne promozionali della raccolta fondi online sulle piattaforme digitali.

«Forse per capire cosa sta succedendo sarebbe utile eliminare del tutto dal nostro vocabolario la parola “emergenza”. Quando un’emergenza diventa permanente va da sé che si trasforma in un processo di qualità diversa. Assume un’altra forma e pertanto anche chi la vive finisce col percepirla in altro modo. Occorre pertanto anche nominarla altrimenti, riguardarla attraverso il filtro di altre parole»[10]. E di altre pratiche, aggiungiamo.



[1] Salvatore Porcaro (a cura di), L’uso della pandemia per reprimere la mobilità dei migranti. La denuncia in un report sui Cpr, in www.napolimonitor.it, 7 dicembre 2020.

[2] Davide Cadeddu, CIE e complicità delle organizzazioni umanitarie, Sensibili alle Foglie, 2013, pag.60.

[3] Renato Curcio (a cura di), La rivolta del riso, Sensibili alle Foglie, 2014.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Luca Rastello, “I buoni” La relazione di aiuto, in https://www.youtube.com/watch?v=zKlA7zQ6t_A

[7] Luca Rastello, “I buoni” Una critica della solidarietà, in https://www.youtube.com/watch?v=fFYdauZanS4

[8] Il Sole24ore, 21 dicembre 2020.

[9] Luca Rastello, “La Guerra in casa”, Einaudi, 1998.

[10] Renato Curcio, corrispondenza con gli autori del testo, 19/01/2021.

Questo è il primo passo verso una/mille possibilità di analisi critica, la prima eviscerazione a cui vorremmo seguissero narrazioni di altri vissuti e altre visioni.
Noi continueremo. La crescita esponenziale delle povertà è vertiginosa, ci riguarda e non può risolversi con l’avallare politiche caritatevoli. Aspettiamo di ascoltare anche le vostri voci.


Inserto n. 0 a L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 20

Last modified: 21 Set 2023

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