Mica un solo Piemonte

Testo e fotografie di Laura M. Alemagna

Per quel che riguarda i suoi vini, il Piemonte a La Terra Trema, Fiera Feroce, è una colonna portante, indiscutibile. Una forza polifonica. Impossibile da contenere ogni volta. E noi non ci proviamo neanche. Quando si affaccia un nuovo produttore piemontese è obbligatorio studiarlo a fondo ed evitare di cadere in semplificazioni. Troppe sono le diversità.
Ogni vigna è un Piemonte diverso e nelle bottiglie è lo stesso.

Nel corso degli anni abbiamo provato a conoscere meglio questo Piemonte colossale delineando una forma di persona capace di lavorare su se stessa, sulla propria solida storia sforzandosi anche di mettersi in gioco con attitudine forse nuova o, invece, innata alla sperimentazione audace, rivoluzionaria, ribelle.
Davanti a noi v’è, dunque, un’avanguardia non solo generazionale o anagrafica ma politica, concreta, tra mente e corpo, e questa si prende spazio tra i totem, in alcuni casi lasciandoli alle spalle per un confronto col vino che spende meno nell’idolatria dei blasoni e si concentra più sulle specificità sostanziali, personalissime, locali. E così, in questo lungo agosto, il colosso Piemonte lo abbiamo interrogato.

Uomini grossi come alberi
Che quando cercherai di convincerli
Allora lo vedi che, sono proprio di legno
(Paolo Conte, Diavolo rosso)

L’ombelico
Il grembo, il ventre è quello di Claudio Solito, de La Viranda (a Calamandrana i vigneti, a San Marzano Oliveto cantina e un pezzo di azienda, Asti). È lui che chiama e dice: venite, voglio portarvi in un posto.
Claudio Solito de La Terra Trema ne è ormai l’effige involontaria, icona vivente di questo progetto.
La molteplicità di vini che produce racconta molto di lui e della natura del luogo che egli abita, la Langa Astigiana.
Claudio produce vino per dire ciò che pensa. Da La Viranda combatte a cornate la sua battaglia contro l’omologazione/standardizzazione di vini e vite (umane), contro i monopoli che, nell’astigiano e non solo, hanno condotto la produzione vitivinicola dentro un calderone informe. Non, dunque, una battaglia romantica, naif. Le corna le ha ben puntate verso i monopoli costruiti dal mercato: verso le sue derive che portano a modificare produzioni e disciplinari, verso una tipologia di lavoro che tende a sfinire ogni cosa, terre, territori e persone, soprattutto.
Claudio è schietto (di parole e di vino), chiarisce a chiunque quel che può fare il mercato. Può dirottare decenni di storia di un luogo, annientarne il valore, azzerarne le declinazioni naturali, appiattire un panorama sociale e naturale se ha i grossi numeri, se ha i capitali. Ma può anche ammaliarti, silenziarti, relegarti a una piccola nicchia confortevole, offrirti la tua fetta di torta e lasciarti lì, a crogiolare, senza disturbare, nel tuo paio di ettari.
Ci vuole coraggio insomma, e occorre confrontarsi. Per questo non è raro che chiami a raccolta o che si lasci coinvolgere a sua volta.
Nel chiamare a sé di Claudio v’è il sintomo di un desiderio di connessioni proficue, di reti reali e a noi sta bene. Rispetto al continuo alternarsi di mode e definizioni buone a determinare (nel mercato) la natura del vino e la connotazione spirituale di ogni singolo acino che lo compone, adesso come adesso abbiamo più voglia di guardare al vignaiolo che alla bottiglia, alla sua capacità (di uomo o di donna) di seminare e avvilupparsi alle storie di altri come lui.

Amapola, dolcissima Amapola,
la sfinge del mio cuor sei tu sola
io ti bramo, t’invoco follemente.

(Carlo Giuseppe Eugenio Buti, Amapola)

Il posto in cui vuole portarci sta nel cuore di Claudio, è in alta Langa ed è Il Finocchio Verde che fu di Mario Gala.
Non era un uomo del vino Mario Gala, produceva con Isa De Caria, sua compagna, tume a Murazzano di Cuneo, era pastore e casaro isolato, tra i bricchi.
Mario e Isa sono stati artefici di un modo solo loro di approcciarsi a quella terra cercando, in primo luogo di scansare logiche di accumulo e di guadagno e di svolgere il mestiere di pastori con naturale rispetto per chi in quel mondo era messo al centro: le bestie, le persone, la terra.
Pian piano hanno aperto quella piccola azienda ad un pianeta popolato di curiosi provenienti da ogni parte in cerca di qualche piccolo insegnamento. Il Finocchio Verde è divenuto, in breve, meta per numerosi giovani di buona volontà che lì hanno avuto modo di avvicinarsi al lavoro della terra, in maniera esperienziale.
Mario mungeva a mano le sue pecore di Langa, ogni mattina, ben oltre la trentina di capi e una resa veramente ridotta. Intorno a questa pratica ostinata e fuori dal tempo contemporaneo ha eretto la sua storia.
È mancato nel 2018, lasciando ai giovani che transitarono la sua eredità, non leggera, lo sapeva. Gioia sì, indipendenza anche, ma soprattutto sangue e merda, diceva.

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Quando arriviamo le pecore sono al pascolo
Il cielo è nero e tra le alte colline si insinuano nubi filamentose e gelide. Si avvicina di sicuro un temporale, forse anche la grandine.
Ci accoglie Christian Lauer, austriaco di Vienna. Al Finocchio Verde è capitato in sella a una bicicletta nel corso di un viaggio. È rimasto lì qualche tempo, è andato e tornato, poi Mario l’ha chiamato al telefono per lasciargli le redini di quel progetto.
Con lui c’è Julien, francese di Lione. Un cuoco di quelli che maledice e ama la cucina. È lui a preparare il pranzo che consumeremo, la tempesta è cominciata.
I formaggi di Christian sono una potenza, Claudio è entusiasta dei risultati di questa nuova leva e dei sapori che è stata in grado di produrre là dove nulla era ed è dato per scontato.
Il caseificio è piccolo e Christian si muove al suo interno con precisione asburgica, gesti controllati e precisi, non vani, non inutili, mirati. Piega le tume e le ripone nei sacchi che ci consegna.
In questi giorni il numero dei capi è quasi raddoppiato, hanno in consegna gli animali di un pastore vicino. Le ospiti le riconosci dal pelo più chiaro e pulito. Le altre hanno un’aria decisamente più errabonda. Isa racconta di incontri. Le giornate passano anche mantenendo viva quella rete di relazioni che lei e Mario hanno intrecciato, aggiungendo i lembi di queste voci nuove.
Fuori piove, la veranda si affaccia sul giardino semi spontaneo e sull’orto. È un luogo forte. Geometrie si sovrappongono a storie, mattonelle rosse e antiche, cementine, cumuli di fave a essiccare, cani bagnati accovacciati, mazzi di pannocchie e di cipolle, porte di legno scrostato e vetro. Fuori piove a dirotto. È la soglia del regno/giardino di Isa.
La terra è generosa. Pensa ai tartufi, non c’è mica qualcuno che li ha seminati; le fragoline di bosco, le ciliegie che hanno seminato gli uccelli, le susine selvatiche. Dà un sacco di roba, dà un sacco di roba. E con chi è generoso bisogna essere generosi.

Rientriamo. Verso La Viranda ma prendiamo il tempo di una sosta da Claudia Revelli e da suo padre Eraldo a Farigliano, località Pianbosco (CN). Vogliamo andare lì con Claudio. Non è la prima volta che diciamo che questi viaggi in direzione dei produttori dobbiamo condividerli con altri produttori. Una decina di chilometri di distanza da Murazzano si sciolgono in un panorama che è capace di cambiare notevolmente, in così poco. Dogliani è poco distante.
Claudia ed Eraldo sono tra quelli che conosciamo da anni. Li abbiamo visti crescere, maturare.
All’inizio Eraldo veniva a La Terra Trema accompagnato dalle due figlie. Claudia sembrava silenziosa e timida. Da qualche anno le cose sono cambiate. Eraldo preferisce rimanere in vigna, a casa, la metropoli è una bestia che non ha voglia di domare, chi glielo fa fare, lascia volentieri il passo a lei, a Claudia.
Arriviamo costeggiando il susseguirsi di vigne: San Matteo, Otto Filari, Autin Lungh.
L’esposizione e il microclima sono da fare invidia. Se a pochi chilometri abbiamo visto la grandine qui a Pianbosco non se ne è saputo nulla. La loro è terra di dolcetto e barbera, colture secolarizzate e ben piantate nelle storie familiari. Tutto qui è partito col nonno Enrico, negli anni ’30. Claudia è il volto della terza generazione. Ora è lei che fa il grosso, dentro e fuori dall’azienda. Con coraggio ha preso le cose in mano reimpiantando superfici vitate, ripensando la ristrutturazione della cantina e l’ammodernamento delle attrezzature. Claudia è soprattutto la voce che parla al mondo con il suo vino. Della timidezza degli inizi non c’è più traccia.

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Voilà
In cantina si accendono discussioni e confronti con un piemontese stretto. Claudio ed Eraldo si scrutano, si ascoltano attenti, ogni tanto se la ridono. I vini però li presenta Claudia, noi ce li godiamo e Claudio ne scopre la ricchezza. Nel corso de La Terra Trema il tempo per questi scambi è limitato e, certo, non così agevole.
Langhe Rosato Rossèt da uve dolcetto, Langhe Barbera La Basarisca, Dogliani Superiore San Matteo, Dogliani Autin Lungh, Dogliani Otto Filari, c’è il tempo per tutti.
Ripartiamo. La famiglia Revelli ci circonda affettuosa. Per rivedere Eraldo toccherà tornare.
Il suo volto è più asciutto, ricorda Clint Eastwood, Biondo dell’Illinois. Quando glielo diciamo se la ghigna. Scorrono a ritroso i filari, la piccola chiesa di San Matteo, i noccioleti, la stra di sclin.
La sera ceniamo a La Viranda, solo l’idea è di suo un’occasione di giubilo. La cucina astigiana di Lorella Solito e delle sue compagne meriterebbe una monografia.
Qui ritrovi le relazioni costruite da ognuno, le sue, quelle di Claudio e di Anna, sui primi, sui piatti di carne e di verdure, sui salumi e i formaggi. Tra le portate de La Viranda percepisci la storia di quel preciso territorio: la povertà, la fame, la guerra, la rivincita, la fine e la rinascita.
A tavola con noi ritroviamo amici bolognesi che non vediamo da tempo. Eleonora Stanzani e Luca Comba. Le riflessioni si moltiplicano, l’editoria, il cibo e il suo mercato, le città e la loro degenerazione, le occupazioni osteggiate, i come e i perché, gli a che punto siamo.
Eleonora a Bologna è protagonista della gestione di un luogo come Lortica, gardenwine che prova a mettere in atto pratiche altrove tante volte solo raccontate.
La chimica dei legami e delle relazioni intorno a Claudio in queste giornate piemontesi sembra essere inesauribile.
Fuori riprende a piovere forte, Lorella libera le tende all’esterno dalle sacche d’acqua accumulata. In silenzio, poi gli scrosci.
Lampi illuminano le colline buie e morbide. È tardi, possiamo far spazio tra noi ai cani del cortile. L’indomani si rientra, tutti.
L’appuntamento con Claudio è per metà mese a Cels, frazione di Exilles, provincia di Torino, al bacias del Morliere per la festa di Clapìe.

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Valsusa a pieni polmoni
Dalla provincia di Milano partiamo presto per avere il tempo di passare da Luca Barbich e Matteo di Granja Farm. La storia di questa piccola azienda è fresca ma la pelle è già bella spessa. Il vino in Val Susa ha una storia lunga. A Chiomonte l’avanà era in vigna già dall’anno Mille e vi è rimasto ben coltivato almeno fino a quando sulle colture ha vinto l’abbandono. Come in altre parti d’Italia il richiamo delle metropoli ha sfoltito le popolazioni, montane in questo caso.
Le vallate valsusine sono ripide e nette, le pareti si alzano veloci, le colture fanno i conti con queste misure estreme. Terrazze strette, difficili, vertiginose, appezzamenti piccoli, praticamente inaccessibili ai mezzi meccanici (a motore scordatelo pure) non è difficile arrivare ai motivi di chi ha detto basta, di chi ha deciso di dimenticare il mestiere in vigna per confortevoli città.
Così quei filari si sono spopolati e la molteplicità di viti sono state sommerse dalla boscaglia.
Nuto Revelli, intervistato per la televisione italiana da Guido Davico Bonino disse precisamente questo: dimenticando questa campagna, queste montagne queste ci crolleranno in testa. Noi vivremo in un castello meraviglioso ma costruito sulla sabbia e tra cento anni spenderemo centinaia di miliardi per tentare di tenere questa montagna su col cemento, ma il cemento non basta, se non c’è l’uomo, la montagna ci casca in testa. Avremo il televisore a colori, avremo tutte le cose più sofisticate e inimmaginabili, ma la montagna ci franerà in testa.
Finivano gli anni ’70 e già gli si doveva dare ragione. Ce ne vuole di coraggio oggi per mettere mano a tutto questo, al caos, ce ne vuole di follia nel cercare il bandolo di una matassa così aggrovigliata, per così tanto tempo. Ce ne vuole per decidere di impedire che tutto frani, per affrontare la catastrofe.
Luca e i sui ci hanno provato, ci sono riusciti, gliene va dato atto.
Se non bastasse lo hanno fatto in Val di Susa.

Forse, davvero, ci piace, si ci piace di più
oltrepassare in volo, in volo più in là
Meglio del perdersi in fondo all’immobile
Meglio del sentirsi forti nel labile.

(Marlene Kuntz, Lieve)

Se quasi mai ha un senso usare etichette, viticoltura eroica si potrebbe attaccare a Granja Farm, ma usiamo viticoltura di resistenza come preferiscono loro stessi (e passi se a resistenza, delle volte, fa seguito anche a pubblico ufficiale). Luca e la sua banda hanno incominciato il lavoro di recupero nel 2015 a Courbaval, un luogo che oggi è un crocevia.
I loro vini sono il Red Rebel da dolcetto, il Black Rebel e il Rose Rebel, entrambi da un uvaggio di avanà, bicuet, barbaroux, barbera e altri vitigni autoctoni valsusini.
Tante, piccole e ripidissime vigne nel luogo (politicamente) più caldo d’Italia. Non proprio una passeggiata.
Al Varco Chiomonte ci arrivi da una strada provinciale a due sensi. Dagli enormi piloni in poi si susseguono immagini murali importanti. Poliziotti in tenuta antisommossa, un soldato, un giudice, un ingegnere con l’elmetto giallo, un sindaco, un funzionario UE: le figure ritratte a carponi sul muro di pietra introducono al varco. Mangiano banconote, si cibano di questa catastrofe. Alta Voracità.
Le vigne di Granja Farm si trovano appena oltre il posto di blocco piazzato da anni in quel punto strategico: il Varco 1, quello della centrale, del ponte sulla Dora Riparia, quello che impedisce e decide il passaggio verso il cantiere del Tav, del TELT, La Maddalena.
Oltre quel muro di filo spinato, oltre i blocchi di asfalto e cemento, oltre i jersey e i cancelli, gli involucri di lacrimogeni abbandonati, oltre quel nutrito nugolo di persone armate, in divisa e stipendiate, là c’è via dell’Avanà.

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Favorite i documenti
Il primo giorno, dopo una lunga attesa, le presentazioni di rito, il battibecco d’ordinanza, ci rimandano indietro. Il maresciallo dei carabinieri di turno dice c’è l’ordinanza straordinaria, restituisce i documenti ad ognuno e fa spallucce. Barbich, tornate domani.
L’indomani arriviamo, quasi fiduciosi, ma le tarantelle sono le medesime.
Questa volta l’interlocutore è un funzionario che rimescola le carte. Bisogna attendere. Non è detto che si possa passare.
Luca conosce fin troppo bene queste dinamiche. L’anno precedente, in piena vendemmia, è stato bloccato per sei ore col suo gruppo di lavoro. Per sei ore, fermi, rischiando di mandare a monte le fatiche di una stagione. Stavolta va bene. Superiamo il posto di blocco con il rospo in gola.
Dalle camionette militari e dalle casupole prefabbricate i militari ci scrutano. È pura distopia.
La prima tappa è a Vigna La Colombera. Il grande piazzale che la precede, ogni mercoledì, ospita il pranzo condiviso della popolazione No Tav. Un appuntamento fisso, un esorcismo collettivo contro i divieti, i blocchi, le imposizioni.
Via dell’Avanà è una bellissima strada del vino. Il panorama mozza il fiato, vigne che sembrano cadere nella valle e invece sono lì, sospese sullo strapiombo. Non ci fosse stato il lavoro di Granja Farm e di altri piccolissimi produttori che lì lavorano, la profezia di Nuto si sarebbe avverata mille volte.
Vigna Pòi è la vigna che chiude il percorso, un dedalo verde nel verde del bosco.
A sinistra lo sguardo cade dritto sul cantiere: un buco di cemento e ferro protetto da guardie e altri dispositivi. Qui sono avvenuti scontri anche violentissimi. Qui è il Kiomontistan.
Il senso di questa infrastruttura si perde nel solo confronto con le vigne, bellissime.
A Vigna Sara e Saretta andremo con Claudio Solito. Auto e moto vanno veloci sulla provinciale. L’ingresso è lì, attraverso stretti scalini.
La pendenza toglie il fiato, gli spazi sono angusti e difficili. Claudio ci segue nella scalata e mette la bandiera sul pennone. Si scambiano opinioni e consigli, punti di vista e riflessioni.
La resa di queste piante è risicata. Le viti sono circondate per lo più da superficie boschiva: questo porta naturalmente all’ingresso di uccelli e quadrupedi voraci.
Con un poco di urgenza hanno dovuto iniziare a recintare i filari, un lavoraccio necessario per difendere i grappoli dalle incursioni selvatiche. Il microclima e l’altitudine (sui 900 mt) aiutano a mantenere naturalmente le uve sane e a limitare il numero di trattamenti (operazioni in quelle condizioni difficili e pericolose). In questa vigna folle c’è un lavoro di tutela e salvaguardia del territorio enorme: dove c’era abbandono e decadimento ora c’è vita rigogliosa, ci sono persone.
Un lavoro come questo cerca il confronto costante, muove infinite trame e chiama in causa relazioni, connessioni proficue, lo dicevamo. Solo quelle innescate dopo l’ultima edizione de La Terra Trema sono tantissime: Roberto Dones, ad esempio, contadino a Massaciuccoli (LU), altro spirito generoso, desideroso di confronto, ha consegnato a Luca le sue arachidi e ora si aspetta il primo raccolto valsusino.

Ci muoviamo verso Cels, verso la festa di Clapìe, gruppo più o meno formalizzato, nato anch’esso nel 2015. Clapìe nasce da un desiderio concreto, di un gruppo di persone di varia età: ritrovarsi e auto-organizzarsi veramente, senza deleghe, nei propri luoghi, là dove si abita, non dove si viene dirottati, non tra gli scaffali dei supermercati, non nei recinti delle aree canine, non tra scrivanie in pausa pranzo. Ritrovarsi e progettare, vivere, rivedere le cose, complicarle.
Così, in breve tempo, a Cels è stato costruito un forno per la panificazione, è stato elaborato il progetto di una cantina di comunità, si è messa in atto la rinascita e la tutela dei sentieri, l’avvio di azioni pratiche, contadine, collettive. Ci si è ripreso il mal tolto, hanno detto: il tempo della socialità libera, non determinata da alcuno, il tempo della condivisione del fare. Determinando il proprio essere (individuo) sociale.
Le declinazioni di questo agire sono innumerevoli: il pane per l’autoconsumo, la pizza per le iniziative a sostegno dei progetti e della lotta NoTav, il sapere intimo di ognuno che si ha piacere di condividere. Il sottotetto dei locali di Clapìe è accogliente e luminoso, brilla addirittura. Dorsi di copertine di libri si alternano ben disposti tra bassi scaffali.
È la Libera biblioteca delle Alpi. Una biblioteca ragionata, contemporanea, vitale.
Le sezioni dedicate spiegano bene dove ci troviamo. Eresie, montagna, questioni di genere, campagna e agricoltura, lotte di territori, resistenza.
(…) Un luogo o lo si abita o non lo si abita. Il sistema capitalista non ha nessun interesse a che i luoghi vengano abitati, anzi, ha interesse a deterritorializzare a artificializzare la vita, a desertificare i luoghi, a renderli dei posti inabitabili. Al contrario, abitare i luoghi vuol dire costruire un rapporto organico tra uomo e natura, quello è abitare. È in questo senso che l’abitare un luogo diventa di per sé qualcosa di resistente di conflittuale, in fin dei conti di rivoluzionario.
Così conclude Daniele Pepino ne Le Alpi, la crisi, la rivincita del locale, edito da Tabor, piccola casa editrice che lì transita, abita.

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Agnese
Il nostro moto ramingo per il Piemonte si conclude nel Roero, a Piobesi D’Alba, provincia di Cuneo, da Renato Buganza anche lui pellegrino. Con Agnese Chiaberge, nel 1973, ha messo in piedi un progetto agricolo fondato su una base di valori immateriali quali reciprocità, filantropia, altruismo.
Insieme avevano condiviso un percorso di vita in Africa, tra volontariato, cooperazione e agricoltura, al rientro da quei luoghi si era imposta per loro la decisione che nulla, nel quotidiano di entrambi, sarebbe mai stato come prima: non più indifferenza, non più delega, non più depauperamento di nessuno, a cominciare da se stessi. Dopo un breve errare sulle proprie gambe si stabiliscono in affitto a Piobesi nel 1976, con l’intenzione fermissima di lavorare la terra a modo loro, con le direttive che si erano imposti. Così è che nel giro di poco riescono a produrre anche grandi vini di territorio: Roero Arneis, Chardonnay, Nebbiolo, Roero Riserva, Dolcetto, Barbera, uno Spumante metodo classico. Una produzione ricca, poderosa, lungimirante: Renato ed Agnese sono tra i primi a riconoscere le potenzialità del Roero da quelle parti.

Dentro la tasca di un qualunque mattino,
dentro la tasca ti porterei.

(Gianmaria Testa, Dentro la tasca di un qualunque mattino)

Incontrerete una curva strettissima, state attenti
Superiamo la curva e il piccolo altare posto a sua suprema protezione. Renato arriva nel piazzale di fronte alla cascina dopo di noi, ha bucato una ruota in vigna.Il sole picchia forte. Cerca le chiavi per presentarci subito casa e cantina. L’ingresso presenta tracce di questa vita movimentata che hanno condotto. Maschere africane, premi, pergamene, quadri, moltissimi strumenti musicali. Cose. Cose che parlano di Agnese che, purtroppo, è venuta a mancare da pochissimo. La sua presenza è ovunque. Due fisarmoniche enormi, appoggiate accanto al pianoforte. Una rosso acceso, l’altra bianca, decoratissima. Renato ha affrontato il lutto come la vita che ha vissuto assieme a lei. Amplificando il valore e la natura delle sue relazioni. Agnese è stata un bene per l’umanità, ci ha detto, e questa umanità a Renato vuole benissimo. Camminiamo con lui le vigne delle Gerbole. Tutto è arroventato dal sole duro. C’è troppo da fare. Renato non nasconde una stanchezza insistente, suo malgrado, gli ultimi anni sono stati difficili e lui non è stato bene. Non parla di abbandonare la nave però. Guarda al futuro con lucidità.
Poco sotto operai lavorano all’assestamento del terreno per il nuovo impianto. È la scommessa del figlio, Emanuele. Tra i filari appena sfalciati, nubi di piccoli grilli saltano ad ogni nostro passo. Alle spalle il bosco e le colline. Il paesaggio si apre appena sotto di noi. Una cittadina che avanza inesorabile con modernità molesta di capannoni, asfalto, cemento, nuovi nuclei abitativi, poi, oltre, ancora colline.
Torniamo a casa, il vecchio cascinale in affitto è grande, magnifico. Colline di Langhe e Roero. La cantina si apre su quel panorama grandioso, un’attenzione d’altri tempi alle emozioni, quando non era di moda progettare il consumo del vino anche intorno a questo luogo. Sulla soglia sono poste due sedie, ai lati del bel portone. Il panorama richiede l’ascolto, accomodatevi.

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Poscritto.
Il 14 settembre hanno arrestato Luca Abbà per un vecchio definitivo.
Una resistenza a pubblico ufficiale per lo sgombero di una casa occupata avvenuta un decennio fa. Una condanna a un anno.
Luca lo abbiamo visto a Cels quest’estate, preoccupato ma fiducioso della concessione di un affidamento in prova a casa, per continuare a lavorare. Luca era concentrato sul suo lavoro di agricoltore, ha una figlio piccolo, fa regolarmente mercati a Torino e ad Alessandria.
Vive di questo, vive da contadino, vende le sue verdure, pratica agricoltura di autosostentamento e di comunità. L’affidamento per pene sotto i quattro anni con un lavoro, un domicilio, dei figli, viene concesso sempre.
In questo caso vivere in Val Susa, essere attivisti No Tav e avere una forma di vita diversa e critica rispetto alle forme di vita riconosciute e metropolitane è fattore aggravante, ti porta dritto in carcere. Con accanimento.
Sarà difficile che gli concedano di tornare a casa, a Cels, dove vive e lavora. Il giudice di sorveglianza per ora ha disposto solo una semilibertà. In un anno invece l’orto va avanti, si semina e si raccoglie, si miete e si trebbia.
Noi lo vogliamo libero.



da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 14
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori

Last modified: 2 Mar 2023

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