De L’Atelier Paysan
Illustrazione di Elle

In questi ultimi anni, si sta delineando una nuova tappa d’industrializzazione dell’agricoltura: sviluppo delle biotecnologie, promozione delle fattorie fuori-suolo, carne artificiale, accelerazione della robotica e lancio di un nuovo fiore all’occhiello nazionale: la French Tech agricola. Si tratta dell’agricoltura «4.0», quella che vuole accompagnare la quarta fase dello sviluppo di Internet, l’Internet delle Cose – le macchine e i prodotti dell’industria sono sempre più spesso in grado di comunicare tra loro. In materia agricola, il progetto è quello di installare ovunque dei sensori nelle fattorie, di utilizzare dei software e degli algoritmi d’intelligenza artificiale per automatizzare un insieme di mansioni (nutrire e curare gli animali, per esempio), di ricorrere a dei droni per seminare e polverizzare i prodotti fitosanitari o per valutare le condizioni del suolo e i suoi bisogni di concime, di pilotare dei trattori a distanza con l’aiuto dei satelliti. Tutto ciò è interamente conforme all’attuale orientamento generale del mercato: accelerare lo sviluppo tecnologico, se possibile in nome dell’ecologia.

Così come la cosiddetta smart city pretende di essere una città più razionale che limita sprechi e inquinamenti urbani, un gran numero d’innovazioni robotiche in agricoltura sono presentate come delle soluzioni per razionalizzare l’uso di risorse rare o di fattori produttivi nocivi per l’ambiente. Il tal sistema di sensori deve permettere di calcolare in modo preciso il bisogno d’acqua delle colture e di limitarne quindi il consumo. Il tal sistema di telecamere e di analisi delle immagini deve permettere di individuare automaticamente le mucche che zoppicano e la gravità del problema su di una scala da 1 a 4; talaltro pretende di ottimizzare il nutrimento del bestiame e quindi il suo volume di deiezioni. Il tal robot promette un diserbo meccanico senza pesticidi (e senza mano d’opera), il tal drone promette l’ottimizzazione dell’uso di prodotti fitosanitari ecc. E questa propaganda nella maggior parte dei casi funziona: non solo i grandi media presentano gli attori della robotica agricola come sensibili all’ecologia, ma persino dei sostenitori dell’agroecologia, coscienti che l’agricoltura industriale trasforma la terra in un deserto, possono abboccare in tal senso. È il caso, per esempio, di Joëlle Zask, la quale, al termine di un passaggio sull’Antico Testamento e di un elogio del giardinaggio che contiene, promuove delle start-up israeliane impegnate in progetti dalle promesse prometeiche, sostiene che:

[…] dopo un lungo periodo di recessione, i kibbutzim ritrovano oggi un nuovo dinamismo, grazie alle ricerche scientifiche cooperative in agricoltura ecologica […]. Il kibbutz Ramata Hashofet, per esempio, ospita AutoAgronom, una società high tech promotrice di una tecnica «intelligente» che permette, tramite dei sensori fissati sulle radici, di ridurre del 70% l’uso di fertilizzanti e prodotti fitosanitari e del 50% l’irrigazione delle colture. Al kibbutz Megido si trova la società Agam Advanced Agronomy che inventa dei droni e dei satelliti capaci di osservare minuziosamente le colture e di identificare il loro bisogni1.

La contraddizione è totale, l’impostura immensa. La dipendenza verso il complesso agro-industriale degli agricoltori che si lanciano in questa direzione rischia di accrescersi ancora: non contenti di esseri tenuti al filo dalle banche, dai giganti della chimica e delle sementi, dai fabbricanti di macchine, dai mastodonti dell’agroalimentare e della distribuzione, sarebbero ben presto imbrigliati innanzitutto dai tycoons del digitale (Google, Amazon, Microsoft, oppure Ali Baba e Huawei…) e dalla miriade di attori capitalisti minori che gravitano nella loro orbita.

La neolingua degli ingegneri e dei pubblicitari raggiunge il culmine della menzogna quando essa fa balenare delle conquiste di autonomia agli agricoltori che ricorrono a dei veicoli e a delle macchine «autonomi». La perdita di saper-fare provocata dalle tappe precedenti dell’industrializzazione, al contrario, si perfeziona attraverso l’uso «a ogni angolo del campo» di computer e dei loro sistemi esperti: gli allevatori sono incitati a delegare l’integralità delle cure verso il loro bestiame (sempre più numeroso); i coltivatori sono addestrati a non contare più sulle proprie riflessioni, basate sul tatto, sulla vista, sul «sentire», affidando a degli automatismi la quasi totalità delle proprie analisi sulle condizioni della terra, del cielo e degli altri elementi che intervengono nelle loro colture. La perdita d’intelligenza sensoriale che ne risulterà meccanicamente compendia la perdita di gusto delle verdure, dei frutti e dei formaggi così prodotti. 

La fuga in avanti nella potenza e nella miniaturizzazione proseguirà il declino del numero di agricoltori, nonché la concentrazione delle terre. Certo, in un paese come il nostro non rimane molto da eliminare: partendo da 400 000 agricoltori, la robotica non potrà sopprimerne milioni! Tuttavia, l’emorragia potrebbe subire un’accelerazione significativa in certi paesi del Sud, che hanno conosciuto poco o nulla le tappe precedenti dell’industrializzazione: l’introduzione delle tecnologie «4.0» potrebbe (a certe condizioni) rappresentare il colpo d’inizio di una modernizzazione dalle conseguenze tanto ignote quanto esplosive, socialmente e culturalmente. Alle nostre latitudini, il discorso pubblico di diversi promotori della robotica assicura che i loro propositi non vanno di pari passo con la concentrazione. Questo è in particolare il caso della start-up tolosana Naïo Technologies, ben stamburata dai media nei quali pubblicizza il suo credo di «robotica ecologica» – il cui avamposto sono dei mini-robot, non troppo cari, destinati ad aiutare i proprietari di piccoli appezzamenti (di vigne, per esempio) a fare a meno dei pesticidi. Ecco due aneddoti che forniranno un’idea della presa in giro. Il primo è stato raccolto durante la contestazione del Forum internazionale della robotica agricola (Fira) 2018 a Toulouse, organizzato appunto da Naïo con il sostegno dell’INRA (l’Istituto Nazionale della Ricerca Agronomica, grosso modo l’equivalente dell’italiano CREA, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria). Mentre alcuni allevatori, contadini-panettieri, ortolani e altri oppositori dell’informatizzazione del mondo interrompevano gli interventi dei manager di Johon Dee o Microsoft, una giornalista presente all’alterco si girò verso le imprese che stavano presentando i loro robot nella hall del Forum. Si fece passare per una produttrice di piccoli frutti della regione occitana interessata alla possibilità di automatizzare il proprio lavoro. Quando si rivolse all’impresa Carbon Bee dicendo di coltivare delle fragole su 200 ettari (laddove la media delle aziende agricole di piccoli frutti in Francia era, nel 2016, attorno ai 16 ettari), l’addetto commerciale dietro lo stand le rispose con un gran sorriso: «ah no, non abbiamo niente per lei; se coltivaste mais su 1000 ettari, potremmo cominciare a discutere»2.  Il secondo aneddoto è stato raccolto presso un ingegnere tolosano che aveva lavorato nell’automatizzazione dei veicoli e che Naïo Technologies aveva contattato in vista di un’assunzione. L’ingegnere si ricorda che in occasione di una discussione con un co-fondatore della start-up, costui gli aveva spiegato che Naïo lavorava certo su robot molto grandi per grandi appezzamenti, ma che lo scopo era quello di assicurarsi dei margini economici per mettersi in seguito al servizio dei piccoli agricoltori. L’idea che sono le economie di scala e i tassi di produttività incessanti dei grandi a provocare, in buona parte, l’eliminazione sistematica dei più piccoli, non gli passava nemmeno per l’anticamera del cervello.

L’agricoltura «di precisione» è un investimento duraturo nel proseguo della distruzione degli ambienti di vita, ovunque nel mondo. La sua pretesa ecologica è una mostruosa menzogna, basata sulla semi-invisibilità sociale, in Occidente, del saccheggio reso necessario dalla fabbricazione e dal funzionamento degli apparecchi informatici. Ammettiamo pure che la robotica agricola permetta qualche risparmio in termini di pesticidi, di fertilizzanti, d’antibiotici, d’acqua e di petrolio nel lavoro agricolo – il che è del tutto ipotetico in teoria e potrebbe rivelarsi falso in pratica. Questo progresso assai parziale sarebbe pagato a ogni modo con una crescita vertiginosa della produzione di artefatti elettronici così come con il consumo di elettricità necessaria alla loro fabbricazione, alla circolazione e allo stoccaggio dei dati informatici. Ora, numerosi rapporti e ricerche importanti pubblicati in questi ultimi anni ci forniscono tutti gli elementi per capire che l’accelerazione dello sviluppo dell’industria digitale – spesso giustificata attraverso la chimera della «transizione ecologica» – è insostenibile3. Al punto che alcuni affermano che il digitale sarà il cuore della catastrofe ecologica4.  

È la fabbricazione del materiale informatico ad avere l’impatto ecologico più pesante, in termini di energia, d’acqua e di metalli. La crescita del digitale è un fattore centrale dell’attuale boom minerario, il che fa dire ad Anna Bednik che ci apprestiamo a estrarre dalla crosta terrestre in una generazione più metalli che in tutta la storia dell’umanità5. Microprocessori, schermi tattili, chip RFID e batterie esigono quantità faraoniche d’oro, di rame, di tungsteno, di litio, e di «terre rare» (neodimio, ittrio, cerio, germanio…). Ora, l’industria mineraria è terribilmente inquinante ed energivora:

«Contrariamente al loro nome, le terre rare non sono tanto rare, quanto difficili da estrarre. […] La separazione e la raffinazione di questi elementi naturalmente agglomerati con altri minerali, spesso radioattivi, implicano una lunga serie di processi, i quali abbisognano di grandi quantità di energia e di sostanza chimiche: diverse fasi di frantumazione, di attacco a base di acidi, di clorazione, d’estrazione tramite solvente, di precipitazione selettiva e di dissoluzione. […] Stoccati in prossimità delle fosse minerarie, gli sterili, questi immensi volumi di rocce estratti per accedere alle zone a più alto concentrato di minerali, generano spesso delle fuoriuscite solforose che drenano i metalli pesanti contenuti nelle rocce, e li fanno migrare verso i corsi d’acqua. […] La quantità d’energia necessaria per estrarre, frantumare, trattare e raffinare i metalli rappresenterebbe dall’8 al 10 % dell’energia totale consumata nel mondo, facendo dell’industria mineraria un attore principale del riscaldamento climatico.»

A questo si aggiunge il contributo del digitale all’effetto serra tramite la produzione di elettricità – che il suo impiego ordinario comporta – in crescita permanente. L’insieme degli equipaggiamenti digitali consumava alla fine degli anni 2010 tra il 10 e il 15 % dell’elettricità mondiale. Tale consumo raddoppia ogni quattro anni, il che potrebbe portare la parte del digitale al 50 % dell’elettricità mondiale nel 2030 (!) – vale a dire una quantità equivalente a ciò che l’umanità consumava in totale nel 2008, appena tredici anni fa. 

Queste proiezioni vertiginose sono in parte illuminate dalle stime contenute in diversi studi recenti6 sulla potenza elettrica richiesta da un data center (equivalente a quella di una città di 50 mila abitanti), dai 10 miliardi di e-mail inviate ogni ora nel mondo (equivalenti alla produzione oraria di 15 centrali nucleari, o a 4000 viaggi di andata e ritorno da Parigi a New York in aereo), dai 140 miliardi di ricerche su Google ogni ora ecc..  

Il mostro meccanico dell’agricoltura industriale ha già confiscato la terra alle contadine e ai contadini del Nord. Ma, con la robotizzazione, esso confisca e saccheggia la terra ovunque sul Pianeta, a spese dei contadini, degli ultimi raccoglitori-cacciatori e di tutti gli umani che vorrebbero farne un uso più cooperativo e perenne. In queste frasi di Guillaume Pitron, all’inizio de La guerra dei metalli rari, si può aggiungere senza esitazione «tecnologie 4.0», «droni agricoli», «robot di diserbo», «sistema intelligente d’ottimizzazione dell’irrigazione»:

«Questa panoramica degli impatti ambientali dell’estrazione dei metalli rari ci costringe, di colpo, a porre uno sguardo più scettico sul processo di fabbricazione delle tecnologie verdi. Ancor prima del loro impiego, un pannello solare, una pala eolica, un’auto elettrica o una lampada a basso consumo portano con sé il peccato originale del loro deplorevole bilancio energetico e ambientale. […] Volendoci emancipare dalle energie fossili, in bilico tra un mondo vecchio e un mondo nuovo, sprofondiamo in realtà in una nuova dipendenza, ancora più forte. […] La transizione energetica e digitale devasterà l’ambiente in proporzioni ineguagliate. In definitiva, i vostri sforzi e il tributo richiesto alla Terra per forgiare questa nuova civiltà sono così considerevoli che non sono nemmeno sicuro che possiate riuscirci7».

Siamo convinti che le scelte operate nel modo di produzione (in primo luogo nel rapporto con gli strumenti e con il capitale) definiscano la qualità dei rapporti sociali nei quali produciamo e mangiamo. Queste scelte hanno un impatto sull’accesso all’alimentazione e sul sentimento che accompagna le crescenti disuguaglianze in materia. Allo stesso modo in cui dobbiamo chiederci quale alimentazione vogliamo, dobbiamo chiederci quali macchine vogliamo. Poiché lo strumento che usiamo, la nostra capacità di ripararlo o di adattarlo, determinano il modello agricolo nel quale lavoriamo e di cui mangiamo i prodotti: lo sappiamo, delle macchine (stra)potenti e costose orientano verso appezzamenti più grandi, raramente compatibili con un’agricoltura contadina. Noi affermiamo la nostra volontà di batterci contro «le tecnologie che minano le nostre capacità di produzione alimentare». Non ci sarà alcuna autonomia alimentare senza autonomia tecnica. 

Vogliamo credere che l’emergere delle tecnologie cosiddette «4.0» (l’«agricoltura connessa») costituisca una delle soglie che può provocare una reazione conseguente nella società. Sogniamo una risposta a questa offensiva robotica (droni, trattori guidati dai satelliti, algoritmi di comando nei capannoni…) che sia almeno degna di quella che era esplosa, con gran stupore dei tecnocrati, contro gli OGM venticinque anni fa. Fare inchiesta, gettare discredito, sabotare: chi vuole combattere con noi i robot negli anni 2030? Chi vuole denunciare le ricerche condotte nei laboratori dell’INRA (e da una pletora di start-up) e i prototipi che vi sono realizzati, per il loro sicuro impatto sociale ed ecologico? Chi vuole sabotare i grandi ricevimenti del complesso agro-industriale nei quali queste innovazioni sono celebrate e trasfigurate per assicurare la loro adozione da parte dei rappresentanti del settore e altri «leader d’opinione»? Chi vuole entrare in conflitto con le fattorie giganti (e meno giganti…) che le hanno già comprate o con i concessionari che distribuiscono queste droghe industriali? Appello ai colibrì di tutti i paesi: ciascuno dovrà fare la sua parte per spegnere l’incendio elettromagnetico, e avere così una piccola possibilità di bloccare la caduta da 400 mila a 200 mila agricoltori, programmata (per la Francia) grazie a queste meraviglie tecnologiche.   

Il riferimento alla lotta contro gli OGM è inaggirabile. Fu un decennio decisivo nella lotta contro l’artificializzazione del vivente, una campagna di lungo corso, che ha unito cittadine e cittadini a fianco delle resistenze contadine. Il 7 giugno 1997, diverse centinaia di militanti anti-OGM e della Confédération paysanne distruggono un campo di colza transgenica a Saint-Georges-d’Espéranche. Poi, l’8 gennaio 1998, José Bové, René Riesel e altri della Confédération paysanne entrano in un deposito della società Novartis a Nérac per mescolare delle sementi di mais transgenico con delle sementi convenzionali. Poi, il 2 giugno 1999, circa 200 militanti distruggono un campo di colza transgenetica, una coltura sperimentale sviluppata dall’INRA e dal CETIOM (Centre Technique Interprofessionnel des Oléagineux Métropolitains) a Montpellier. Queste due azioni costituiscono il punto più alto della resistenza attraverso l’azione diretta, poiché in quel momento è identificata chiaramente la collusione del complesso agro-industriale con la ricerca di Stato, chiaramente svelato agli occhi di tutte e tutti l’impatto mortifero della tecnoscienza sull’agricoltura e sull’alimentazione, chiaramente attaccata la sua infrastruttura, per fermarne l’avanzata.8

Gli anni successivi vedranno susseguirsi decine di falciature [di campi transgenici] in diversi territori, seguite da altrettanti processi che intensificano la repressione a partire dal 2001, quando saranno emesse le prime condanne al carcere per i «falciatori», fino al 2005-2006. Le preoccupazioni persistenti in merito al controllo delle sementi o ai pesticidi in una parte dell’opinione pubblica derivano molto probabilmente da questa battaglia, e forse anche la cattiva coscienza, che affiora dall’inizio del secolo, per il sacrificio dei contadini nella società dell’abbondanza, problema che (quasi) nessuno prima percepiva.

La guerra degli OGM non ha segnato una vittoria totale e definitiva dell’opposizione, ma solo un temporeggiamento da parte dei promotori dell’agricoltura transgenica, i quali hanno dovuto grattarsi il capo per aggirare, nel tempo e nello spazio, la diffidenza diffusa dei cittadini-consumatori europei. Dal momento che il mangime dei bestiami francesi (o europei) è in gran parte costituito da soia sudamericana; dal momento che consumiamo così tanti prodotti provenienti dal mondo intero, il divieto alla coltivazione degli OGM in Europa ha un impatto assai limitato: mangiamo tutti ormai regolarmente degli OGM. E gli stratagemmi industriali, per reintrodurre appena possibile degli OGM nei campi francesi senza dichiararlo apertamente, sono stati tanto potenti quanto astuti, grazie agli interstizi o falle nei regolamenti. È il caso delle manipolazioni necessarie all’acquisizione forzata della sterilità maschile citoplasmatica (varietà di piante a CMS), oppure più di recente della mutagenesi (mutazione genetica ottenuta tramite l’esposizione a delle molecole di sintesi) che permette l’emergere di varietà artificiali, in particolare resistenti agli erbicidi. Un OGM nascosto o un OGM di ultima generazione è un OGM.

L’altro grande limite della battaglia contro gli OGM è che la presa di coscienza su quello che si giocava nell’avanzata delle tecnologie transgeniche è stata sensibile, ma limitata. Né il bricolage genetico nel suo insieme né l’industrializzazione dell’agricoltura sono diventate questioni politiche centrali, a misura della loro gravità. Il punto «caldo» del 1999, con il suo chiaro attacco contro la tecnostruttura all’opera, non sarà più raggiunto, e le rivendicazioni non saranno più riprese, né la loro rilevanza compresa, da tutti i protagonisti. È sempre il problema delle battaglie contro le novità apparentemente radicali: non si sa se si tratta di sottolineare la rottura che introducono, o al contrario di insistere sulla continuità che presentano con le traiettorie tecnologico-politiche di lungo termine. Così, la battaglia contro gli OGM attorno al 2000 è stata per alcuni l’occasione di comprendere il senso profondo della tecnica d’ibridazione risalente (per il mais) al 1920: un bluff scientifico, che ha spinto i coltivatori a svalutare le loro sementi di fattoria e ad acquistare ogni anno quelle prodotte dai selezionatori (pubblici e poi privati), benché le seconde non siano più ibride delle prime.

Le sementi ibride prefiguravano profondamente gli OGM nelle loro conseguenze sociali (spossessamento) ed ecologiche (uniformazione genetica). Era contro tutto il processo d’industrializzazione sotto l’egida della Big Science, in atto da un secolo, che bisognava battersi. Allo stesso modo, una battaglia seria contro l’agricoltura 4.0 non può ignorare che la deumanizzazione, il sequenziamento del lavoro agricolo e della produzione di minerale alimentare sono già ampiamente avviati, prima dello stadio ultimo degli algoritmi, dei droni e del 5G. Non è solo contro l’escalation tecnologica forsennata dell’era Google-Elon Musk-Macron che occorre muoversi, ma per una de-escalation tecnologica che abbracci diversi decenni. Azioni contro il materiale connesso di ultima generazione oppure contro le imprese che mettono a punto le ultime applicazioni agricole per smartphone avrebbero senza alcun dubbio una grande utilità in quanto tali, ma esse assumerebbero tutto il loro senso nella misura in cui fossero l’occasione per denunciare anche i robot per la mungitura che risalgono agli anni Novanta, i robot di distribuzione del mangime per gli animali che risalgono agli anni Ottanta, o i robot Hercule degli anni Duemila, che permettono di evacuare facilmente le decine di cadaveri di scrofe morte prematuramente negli allevamenti industriali «fuori-suolo». I trattori e altri strumenti automotori sono da lunga data mostruosamente grandi e rapidi e simboleggiano da soli lo sperpero generalizzato del modello intensivo9

Altro parallelo iperconnesso: criticare l’escalation del passaggio «forzato» al 5G non serve a nulla se non si mette in discussione anche il passaggio al 4G e alla fibra ottica. Senza un lavoro critico su quello che è già stato in buona parte adottato, la possibilità di assestare una battura d’arresto alle innovazioni del momento e ai processi che queste coronano (provvisoriamente) è quasi nulla. È un movimento di machine arrière* che occorre riuscire ad avviare nella società in generale, e nell’agricoltura in particolare.  Finché sembrerà naturale a un agricoltore come a chiunque altro di delegare tutti gli aspetti della propria vita a uno smartphone, questi lo utilizzerà anche per gestire il suo bestiame, l’innaffiamento o i trattamenti fitosanitari. È evidente che la battaglia contro il 5G come quella contro la robotica agricola sono culturali e politiche. Pongono delle questioni di potere, ma soprattutto di modi di vita, di contenuto del lavoro, della maniera di fare esperienza degli oggetti e degli esseri che ci circondano.      

Speriamo di trovare degli alleati nella galassia anti-5G emersa in questi ultimi anni per lanciare una campagna specifica contro le tecnologie (di domani e di ieri) che rafforzano quotidianamente il modello di agricoltura intensiva nelle campagne. E speriamo di trovare alleati anche all’interno del movimento per l’agricoltura contadina, malgrado il suo scarso appetito per la critica delle tecnologie, in particolare digitali, e la credenza di poter dissolvere l’agricoltura industriale senza passare attraverso un significativo conflitto sociale. 

Non ci resta che passare dal colibrismo, perlopiù digitale, a un’offensiva che miri a una de-escalation tecnologica di massa, che contribuisca cioè a un’indispensabile trasformazione sociale e non a un tecnologismo alternativo. Le fattorie digitali sono già in fase finale di sperimentazione.

Non ci resta che unirci, sollevarci, riprendere la terra alle macchine.

1 Joëlle Zask, La Démocratie aux champs. Du jardin d’Eden aux jardins partagés, comment l’agricolture cultive les valeurs démocratiques, La Découverte, Paris, 2016, p. 33.      

2 Cfr. la cronaca del professor Canardeau, Paysan, haut les mains !, nel «Canard enchaîné» del 19 dicembre 2018.

3 Guillaume Pitron, La Guerre des métaux rares. La face cachée de la transition énergétique et numérique, Le Liens qui Libèrent, Paris, 2018 (trad. it., La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss, Roma, 2019); Cécile Diguet e Fanny Lopez, L’impact social et énergétique des data centers sur les territoires, Rapporto per l’Ademe, 2018.

4 Cfr. Matthieu Amiech, Peut-on s’opposer à l’informatisation du monde?, «Terrestres», juin 2020. 

4 Anna Bednik, Extractivisme. Exploitation industrielle de la nature: logiques, conséquences, résistances, Le Passage clandestin, Paris, 2016, p. 112.

5 Célia Izoard, Le bas-fonds du capital, «Z», n. 12, «Guyane. Trésors et conquêtes», autunno 2018, pp. 12-14.

6 Proposti da Anders S.G. Andrae e Tomas Edler, in On Global Electricity Usage of Communication Techlogy: Trends to 2030, «Challenges», n. 6, 2015, pp.117-157. Sottolineiamo che queste statistiche hanno tutte le probabilità di essere superate per eccesso a causa della pandemia e del confinamento.

7 Guillaume Pitron, La Guerre des métaux rares, op. cit., p. 55, 26 e 22 (l’ultima parte va letta come un avviso ai politici che hanno sottoscritto l’accordo di Parigi sulla lotta contro il riscaldamento climatico).

8 Sulla campagna contro gli OGM, sulle posizioni teoriche espresse fuori e dentro dei tribunali, nonché sul successivo ruolo di Bové nel loro annacquamento cittadinista, si può leggere in italiano: René Riesel, Sulla zattera della medusa. Il conflitto sugli ogm in Francia, Quattrocentoquindici, Torino, 2004 (NdT).  

9 Rinviamo lettori e lettrici al nostro rapporto Observations sur les technologies agricoles, uscito  nell’estate del 2021 e consultabile sul nostro sito: latelierpaysan.org

* Letteralmente «macchina indietro», come si dice «marcia indietro». Riferimento a Machine arrière! Des chances et des voies d’un soulèvement vital, Pièces et main d’œuvre, marzo 2016, pièce détachée n. 77.

(Brani tratti da L’Atelier Paysan, Reprendre la terre aux machines. Manifeste pour une autonomie paysanne et alimentaire, Seuil, Paris, 2021)            

L’Atelier Paysan è una cooperativa di auto-costruzione di macchinari per i campi, un «organismo di sviluppo agricolo e rurale» che opera per «la generalizzazione di un’agroecologia contadina, per un cambiamento di modello agricolo e alimentare radicale e necessario», accompagnando «le agricoltrici e gli agricoltori verso una concezione inedita e sovversiva delle macchine e degli edifici», per «ritrovare collettivamente una sovranità tecnica, un’autonomia attraverso il mutuo soccorso e la riappropriazione delle conoscenze e dei saper-fare, controcorrente rispetto alle tecnologie che spossessano» (per maggiori informazioni: www.latelierpaysan.org).

Ringraziamo la redazione di Nunatak rivista di storie, culture, lotte della montagna
per aver condiviso con noi questo articolo (NUNATAK, N.69, ESTATE 2023).


Con il nome “Nunatak“, originario della lingua dei popoli nativi del polo artico, sono denominate le formazioni rocciose che spuntano dalla coltre ghiacciata della Groenlandia e del circolo polare antartico. Si tratta in effetti delle vette di alcune, le uniche al giorno d’oggi ancora coperte dai ghiacci perenni, di quelle montagne su cui, all’epoca delle glaciazioni, si rifugiarono embrionali forme viventi che, con il ritiro dei ghiacci, ripopolarono di vita il pianeta. Dinnanzi al dilagare degli scempi sociali ed ecologici prodotti dalla società della Merce e dell’Autorità, le montagne della Terra tornano ad essere lo spazio della resistenza e della libertà. Affinché una vita meno alienata e meno contaminata possa, giorno dopo giorno, scendere sempre più a valle.
nunatak@autistici.org

TEA: LO SDOGANAMENTO DEGLI OGM IN ITALIA (E IN EUROPA)
del Collettivo «Terra e libertà», Rovereto, luglio 2023

Lo stato di emergenza che ha accompagnato l’alluvione in Romagna è stata l’occasione per sdoganare gli OGM in Italia. Con l’emendamento al Decreto Siccità approvato il 30 maggio scorso, mediante un vero e proprio blitz, si è dato il via alla sperimentazione all’aperto dei nuovi OGM in Italia. Mossa che, oltre a trovare il plauso di tutti i sindacati agricoli (Coldiretti, critica nei confronti della carne sintetica ma a favore della modificazione genetica, Confagricoltura e CIA), ha anticipato la proposta della Commissione europea (5 luglio 2023) di esentare le TEA dalla regolamentazione in materia di OGM. Quelle che in Italia, infatti, i sostenitori definiscono eufemisticamente TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita) e che nel resto del mondo vengono definite NGT (New genomic techniques) o NBT (New breeding techniques) rappresentano nuove, più economiche e sofisticate tecniche per manipolare geneticamente il genoma delle piante. Per quanto i biotecnologi promotori non vogliano chiamarli OGM, dal momento che il solo nome ricorda l’opposizione sociale che in tempi non troppo remoti ha cercato di respingerli, la loro fabbricazione avviene comunque da parte di scienziati-tecnici in laboratorio riducendo la complessità del vivente alla presunta conoscenza e quindi alterazione di poche informazioni genetiche.  Se i “vecchi” OGM si basano sul trasferimento di materiale genetico da una specie ad un’altra (transgenesi), i nuovi OGM prevedono la modificazione genetica all’interno della specie (cisgenesi). Di fatto sono tecnologie che si basano sulla modificazione delle basi stesse della vita ovvero le molecole del DNA con l’obiettivo, ormai anche dichiarato, di creare nuove specie da brevettare. Una precisa appropriazione delle principali sementi coltivate, che è cominciata negli Stati Uniti con la Plant Patent Act del 1930 sui brevetti delle piante per proseguire con le sementi ibride della “Rivoluzione verde” fino ai nuovi OGM dei giorni nostri. La fuga in avanti tecnoindustriale si materializza sempre più come unico mondo possibile, dal quale sarà difficile trovare dei sentieri di liberazione e di autonomia. Ma come dice il poeta Eugenio Montale:

«La Storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive»

Se l’avidità e il potere di dominio hanno desertificato la biodiversità (dal 1900 a oggi, il 75% della diversità genetica delle piante coltivate si è persa, sostituite da varietà uniformi). Una volontà deliberata di infrangere gli equilibri della Natura “correggendo”, “silenziando” e quindi manipolando i geni mira a creare i viventi perfetti per la macchina capitalistica. A fronte di tutto questo bisogna contrapporre l’urgenza etica e pratica che dai “sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli” germini per sradicare le tecno-piante, prima che i loro programmatori sradichino ogni seme di autonomia.

Collettivo «Terra e libertà», Rovereto, luglio 2023

I materiali prodotti dal Collettivo (e non solo) sono disponibili su: terraeliberta.noblogs.org
Per richieste e contatti: terraeliberta@inventati.org

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 30
18 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 3 Feb 2024

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