Ritornano insieme, su queste pagine, Ligabue e Caleffi, ognuno a suo modo, pintori di luoghi, ricamatori di storie, di culti agresti, miti, presenze concrete e fiabesche in un territorio, se guardiamo bene, molto esteso in cui Gualtieri è il piccolo cuore

testo di Giuseppe Caleffi
illustrazione di Andrea Rossi

Ciò che mi colpì maggiormente nei racconti che le persone facevano sull’uva fogarina (persone che definivo “antiche” per l’evocazione di un tempo che a me appariva più lontano di quello che in realtà era e, soprattutto, è perduto) era il suo aspetto leggendario. Una barbatella d’uva scoperta in riva al Po, portata certo dal grande fiume, quindi un regalo, un dono alla tenacia delle genti rivierasche, quasi come gesto di riappacificazione per le piene (insite comunque nel suo essere) e le paure che a queste provocavano. I fiumi, nella storia dell’umano, sono sempre stati associati a leggende e hanno sempre caratterizzato civiltà, dal Volga della madre Russia, all’Eufrate fino al nostro Po o addirittura divennero simboli religiosi come il Gange, il Nilo o il Rio delle Amazzoni. Quindi Miti.

Il mito legato al Po, che lo lega al divino, ci conduce a quello che è sempre stata un’aspirazione dell’umano: il cielo, il “volare alto”. Desiderio, però, sempre punito dagli Dei, nei tempi, almeno, in cui questi ancora esistevano. Per cui si tramanda che Fetonte, figlio di Apollo, per essere riconosciuto come tale, cominciò a scorrazzare nel cielo con il carro del padre e Zeus, che non gradiva tanta sfrontatezza, con una saetta lo precipitò in… Po. Piansero le sorelle, piansero talmente tante lacrime da popolare le rive del fiume di pioppi, piante che da allora caratterizzeranno sempre le sue rive. Anche Icaro non segue sorte migliore. L’uomo, però, non si ferma, volando alto vedrà il mondo qual è. Ed ecco le trasvolate. Balbo vede l’America dall’alto, intuisce l’esito della guerra, ma nulla può con un Mussolini teso “terra, terra” alla battaglia del grano. Poi la sfida fra comunismo e capitalismo, che dal terreno si trasferisce allo spazio, poi le “guerre stellari”.

Il nostro Ligabue, espulso dalla montuosa Svizzera, chissà come sarà rimasto sorpreso, al suo arrivo, da questo territorio incredibilmente piatto, in cui le uniche alture erano rappresentate da tutta una serie di argini, al cui rafforzamento dovette per di più lavorarci. Già, perché è pur vero che gli olandesi strapparono terre al mare, ma anche i nostri braccianti/contadini non si fecero pregare per strappare terre al Po. Lui non si adatta alla pianura, capisce che non può ancorarsi al terreno, all’esistente e deve volare alto, come le aquile che ammirava a San Gallo. Deve andare oltre la metafisica di De Chirico, le nature morte di Morandi o i paesaggi soffusi dell’amico Mazzacurati. Per non parlare poi di tutta quell’arte genuflessa al fascismo, che in silenzio disprezza. Il naso adunco, grosso, a becco d’aquila, quello sì, è simbolo del genio. E Antonio lo deve avere. Per divenire “Aquila”, deve perciò colpirselo, batterlo fino a farlo sanguinare… ma la società che pure l’accoglie non può accettare questi comportamenti che derubrica a meri episodi sanitari, “atti di autolesionismo” come scrivono i medici, deve integrarsi, non può vivere da svizzero o d’artista in un paese diverso dal suo. È lì che Ligabue, deriso e umiliato dall’uomo, frequenta la golena chiusa (la porzione di terra strappata al Po) e “aperta”, vi lavora come cooperatore scarriolante e si ristora, con gli altri compagni di lavoro, all’ombra dei filari di fogarina. Proprio la vite che il Po aveva portato e l’uomo, sapientemente, lasciò a dimora nel posto che questa aveva prescelto. Quasi come gesto di rispetto. La scelta, si sa, verrà ripagata: la terra formata dalle piene del Po è fresca, tenera, fertile, comunque adatta a questa vite. Sarà ricchezza per la bassa Reggiana fino agli anni Trenta. A Gualtieri si costituisce addirittura – e in pieno regime fascista – una cooperativa fra produttori di uva fogarina proprio vicino alla stazione per favorire il trasporto dei mosti e dell’uva passita un po’ in tutto il nord Italia e all’estero. Sempre più famiglie di Gualtieri appendono alle pertiche dei granai i suoi miracolosi grappoli. Quest’uva, vendemmiata tardivamente, che non teme pioggia o neve, sarà alimento e leccornia durante i lunghi mesi invernali.

Anche sotto i filari le discussioni volano alto, forse complice lo stesso vino. Immaginano una società diversa, di come poterla costruire, di come arrivarci, si recita la “predica di Natale” di Prampolini, imparata a memoria, perché pochi sanno leggere e scrivere e sono proprio, guarda caso, i preti e i borghesi. Ligabue ascolta, cerca di capire, vorrebbe intervenire, ha difficoltà a entrare in questa nuova lingua, ma intuisce la passione e la forza di questi ideali ed ecco che, da par suo, ci regalerà tutta una serie di quadri – è vero, con la sua Svizzera di fondo – che sembrano dipingere l’inizio secolo. Così può scrivere mio zio Ugo Sassi: «Fra i due grandi poli della sua arte – la pace e la violenza, il canto e il grido – la serie delle arature merita un cenno particolare. In tutte le rappresentazioni medie e piccole, la ricchezza dei colori e i passaggi di luce esaltano la forza della gleba, sembra che i primi albori del secolo debbano nascere e scendere dal cielo vincitori per posarsi sulle zolle aperte e riscaldarle, in un silenzio quasi altero».  

La fogarina, come tutti i vitigni, come la natura, “sente” la storia con cui convive, partecipa agli ideali di queste genti umili, ma soprattutto resta colpita, s’incuriosisce, ai dipinti e alle sculture di questo svizzero, alla forza di questi colori che escono dal cuore, alla bellezza e alla vita di questi animali, animali peraltro mai visti, ma che sembrano quasi rappresentare le lotte che vede fra gli uomini. E capisce il perché dei ruggiti, dei nitriti, di quelle urla e maledizioni che ascoltava sorpresa, mentre osservava Antonio dipingere sotto i suoi filari. La fogarina s’innamora di questi dipinti e decide che anch’essa colorerà e rafforzerà ancor più vini che necessitano del suo aiuto. Ed è per questo che assume quella forza, quel grado d’acidità che fa sì che venga usata «per rianimare (avete letto bene…) e vinificare vini scialbi e bassi, o anche per vini eletti ma mancanti d’acidità» oppure «per dar colore agli altri vini poco colorati». 

Anche la fogarina “vola alto”, ma d’altra parte non ci ricordava il compianto Luigi Veronelli che “il vino è il canto della terra verso il cielo”?

www.museoligabue.it

da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 18
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori

Last modified: 20 Dic 2020

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