Di Riccardo Rosa
Illustrazione di Roberto C.

Neanche un filo d’erba. Socioanalisi narrativa di un carcere minorile
è un bel libro curato da Paolo Bellati e Renato Curcio, da pochi giorni pubblicato tra i Quaderni di ricerca sociale di Sensibili alle foglie. Il volume costituisce l’ultimo passaggio di una serie di incontri fatti con un gruppo di giovani ex detenuti del carcere minorile Beccaria e restituisce in centocinquanta pagine un quadro preciso di questa istituzione: sempre di più strumento ordinario nella gestione delle politiche giovanili, come potesse surrogare il ruolo di un’educativa territoriale, una struttura di erogazione di servizi psicologici, un qualsiasi ente pubblico che ha come obiettivo quello di dare risposte a persone in difficoltà. Non è un caso che dall’entrata in vigore del tristemente noto Decreto Caivano, che aumenta a dismisura le possibilità per un minore di finire in carcere a discapito delle pene alternative, gli ingressi negli istituti penitenziari minorili siano aumentati del cinquantaquattro percento, facendo raggiungere quota seicento al numero dei giovani ristretti.

Ho letto Neanche un filo d’erba mentre sono costretto a fare i conti con le storie di due ragazzi a cui voglio bene, da qualche mese detenuti in due istituti penali minorili campani (Nisida e Airola). Li conosco – hanno rispettivamente sedici e diciassette anni – da quando avevano meno della metà della loro età attuale e li ho seguiti come educatore per buona parte della loro vita, entrando in stretta relazione con le loro storie personali e familiari, le gioie, le fragilità e le frustrazioni, le aspirazioni e gli errori. 

M. è finito dentro per colpa di una serie di aggressioni, di cui una a un poliziotto, connesse a una patologica difficoltà, mai affrontata da nessuno e in alcun modo, a gestire le proprie emozioni negative. Sarebbe utile, per allontanare qualsiasi potenziale pulsione giustizialista del lettore, raccontare della sua disastrata situazione familiare, del precipitare degli eventi che hanno travolto la sua vita negli ultimi anni, o in generale della sua complessa storia personale. Ometterò però queste questioni per evitare quel terreno che pretende l’empatia, la comprensione, le opportunità di riscatto non come un diritto per tutti, ma come beneficio appannaggio dei più sfortunati, degli “incolpevoli”, di chi sbaglia perché si muove in un contesto sfavorevole e con possibilità inferiori rispetto alla media dei propri coetanei. L’altro ragazzo, per esempio, è semplicemente un giovane inquieto e irrequieto. È un adolescente come tanti, C., in cerca di risposte che non sa e probabilmente non vuole darsi, ma che ben presto si è stancato della scuola, del calcio, degli assistenti sociali e di chiunque gli imponga, o anche solo gli suggerisca, una strada o un modo di fare. Sia M. che C., in momenti diversi, hanno scelto di andare in carcere rinunciando alla possibilità, dopo averla sperimentata, di stare in una comunità.

Il carcere Beccaria di Milano è uno degli istituti in Italia che più di frequente raggiunge gli onori della cronaca per scandali di vario genere, episodi di violenza, proteste e rivolte dei detenuti. Le riflessioni dei due curatori del libro, e soprattutto le parole dei diretti protagonisti, non risparmiano nulla a chi legge: sovraffollamento a livelli cronici, incapacità (e mancanza di volontà) nell’affrontare la multietnicità sempre crescente, violenza costante e quasi sempre impunita degli agenti con attribuzione arbitraria di punizioni fisiche e psicologiche ai ragazzi, normalizzazione di prassi non scritte – se non in qualche astrusa circolare – che così come nel carcere degli adulti costruiscono le regole de facto del carcere, e che sono diverse istituto per istituto. È il caso di quella che Bellati e Curcio definiscono “pedagogia nera”, la pedagogia della pena o “del bastone”, una traslazione dell’equilibrio basato sulla punizione che sorregge l’istituzione (degli adulti) in un universo che, nelle sue folli teorizzazioni, pretenderebbe di essere educativo per giovani che hanno commesso degli errori ma hanno una intera vita davanti per recuperare: “Per i maltrattamenti aggravati – si legge in un passaggio del volume – esercitati tra il 2021 e il 2024 (tra i quali, oltre alle lesioni, le umiliazioni e gli insulti razzisti subiti dai ragazzi compaiono una tentata violenza sessuale operata da un agente nei confronti di un detenuto, e la voce ‘torture’) sono state messe sotto inchiesta giudiziaria quarantadue persone. In un primo tempo, nell’aprile 2024 vennero messi sotto indagine tredici agenti penitenziari, otto dei quali furono anche sospesi dal lavoro. All’inizio di agosto 2025 i PM incaricati hanno però aggiunto a quel primo elenco un comandante e altri tredici agenti, un medico, due operatori sanitari, due ex direttrici e una vicedirettrice”. 

Nel suo complesso il libro ha il merito di partire dalla dettagliata analisi di un caso studio per tracciare linee generali ragionando, sempre a partire dalle parole dei ragazzi, sul (non) funzionamento di questa istituzione. È probabilmente per questo che i capitoli più efficaci sono quelli che rivelano come il carcere minorile costituisca un’arma impropria di gestione illiberale del fenomeno migratorio; che svelano con pochi e chiari esempi l’ascensore dei meccanismi premiali, un inferno dantesco che istituisce condizioni diverse di detenzione a seconda della docilità o della renitenza di un detenuto al rispetto di regole assurde; che sconfinano, senza perdere il filo del ragionamento, nei campi della sociologia dei processi migratori, della psicologia, dell’antropologia culturale, mostrando le continue evoluzioni e involuzioni, a livello individuale e collettivo, delle relazioni tra istituzioni totali e linguaggio, privazione dello spazio e processi di alienazione, gestione chimica del dolore, autolesionismo e “ricadute”, invisibilizzazione burocratico-amministrativa e rivendicazioni identitarie. 

Vale la pena, infine, di soffermarsi su due questioni che hanno la forza di aprire, soprattutto al lettore “non addetto ai lavori”, spunti di riflessione non scontati sulla carcerazione minorile. La prima è quella relativa agli “spazi per il sé”, una lettura più profonda del tema del sovraffollamento, che non si riduce alla denuncia di condizioni pur infami di detenzione, e alla descrizione di stanze in cui per andare in bagno bisogna calpestare i materassi su cui, per terra, sono assiepati gli altri detenuti. Quello che è in ballo, spiegano gli autori del volume, è l’impossibilità di momenti d’introflessione, di elaborazione della propria situazione e delle possibili prospettive: “momenti indispensabili a qualunque età, ma in quella dei ragazzi più ancora decisiva sia per la loro crescita personale che per la maturazione emotiva. Si tratta, insomma, di un vero e proprio soffocamento psicologico e sociale” che “aggiunge un quid specifico alla brutalità ordinaria della condizione carceraria, ne accentua, se possibile, la pena e la sofferenza dei corpi” e “contribuisce in modo decisivo allo smantellamento di un qualsivoglia, sia pure vago ed embrionale, progetto educativo”. 

Anche la seconda questione, che riporta alle storie dei ragazzi napoletani con cui si è iniziato questo testo, ha molto a che vedere con lo “smantellamento del progetto educativo” scientemente operato dal carcere minorile. Essa è, infatti, legata alla desolante descrizione, che è uno dei fili conduttori del libro, del complesso equilibrio di relazioni, rapporti lavorativi e personali, compartimentazione delle mansioni e, quindi, delle responsabilità del mondo degli adulti che operano in carcere. Gli educatori e il personale civile escono a pezzi dalla descrizione dei ragazzi, che ritraggono queste figure per lo più – mantenendo comunque una discreta capacità di differenziazione – come quelle di scialbi passacarte, capaci di parlare e mai di ascoltare, latitanti tra le sezioni persino nelle poche ore durante le quali sono chiamati, con un magro stipendio, va detto, a lavorare nelle strutture. 

Il fatto che molti ragazzi finiscano loro stessi per preferire, almeno nella brutale quotidianità, la guardia all’educatore, il carcere alla comunità, la repressione al confronto, è a ben pensarci il trionfo dell’istituzione totale, che ha come unico scopo un disciplinamento sociale raggiungibile solo attraverso la punizione e, perciò, inconciliabile con qualsiasi millantata velleità di crescita personale, riabilitazione e reinserimento. A parità di vuoto, di noia, di assenza di figure adulte adeguate con cui confrontarsi e di mancata apertura verso nuove prospettive reali, è comprensibile che i ragazzi scelgano almeno la chiarezza delle regole (per quanto ingiuste) e degli intenti all’ambiguità; preferiscano la crudezza all’ipocrisia, la punizione al ricatto morale, persino le botte alle chiacchiere vuote. Ma se questo modello disciplinante è indispensabile per la buona riuscita di ogni innaturale tentativo di mantenere una persona chiusa e ferma in una gabbia per un certo lasso di tempo è anche vero che, nel mondo dei ragazzi, ha bisogno di più sforzo e tempo, elementi necessari a scalfire animi spesso più istintivi, meno interessati a calcolare il rapporto tra i comportamenti e le loro conseguenze, non ancora del tutto e necessariamente assoggettabili al rispetto remissivo di piccoli e grandi soprusi.

Le continue proteste e le rivolte, più o meno pubblicizzate, che settimanalmente avvengono in molte carceri minorili in tutto il paese ci dicono che questo modello non è necessariamente destinato a vincere. Quella però è la parte che possono fare i giovani detenuti per l’eliminazione di queste inutili e ipocrite istituzioni. È ora di chiedersi cosa siamo disposti a fare noi. 

Paolo Bellati, Renato Curcio
NEANCHE UN FILO D’ERBA
Sensibili alle foglie 2025



Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 38
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 3 Nov 2025

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.