Compagni dai campi e dalle osterie!
Di Alessandro Gerosa
Fotografia Laura M. Alemagna

La città contemporanea sta trasformandosi anche intorno ad economie e consumi nuovi, insaporiti da vini e cibi ottimi e da ottimo marketing. In questo processo culturale, urbanistico, politico, monetario, quale ruolo giocano osti e ristoratori? 

«È la sete della metropoli che determina la domanda!» mi fulmina Frenchi, oste dell’enoteca Escobrillo, in apertura della nostra chiacchierata per la mia ricerca su osti e ‘‘artigiani urbani”. Mai come oggi la sete della metropoli chiede il genuino, l’artigianale, l’autentico. La vittoria del prodotto contadino su quello industriale, in un certo senso, è già avvenuta nei desideri dei consumatori. Intrappolati nella metropoli, consumano un immaginario che gli permetta un ricongiungimento almeno simbolico con uno spazio e un tempo lontani e inaccessibili. Eppure, rimane terribilmente valida la considerazione con cui, nel ‘99, Luigi Veronelli apriva la sua lettera aperta ai giovani estremi: «il potere ha utilizzato – con un vero e proprio capovolgimento dei propositi – ciò che era nei nostri sogni».

Approfittando della facile riproducibilità tecnica – avrebbe detto Walter Benjamin – di questo desiderio e capovolgendone i propositi, la grande industria si è operata per confezionare artificialmente esperienze di consumo pseudo-artigianali a portata di scaffale del supermercato. Ma ridurre il quadro del conflitto a una sfida tra Davide e Golia, tra grande industria malvagia e piccoli commercianti virtuosi sarebbe riduttivo. La sete della metropoli ha contribuito alla proliferazione di cocktail bar dai sapienti mixologist, microbirrifici con birre dalle luppolature più particolari, enoteche dalle ampie offerte di vini naturali e ristoranti dalle ricette e ingredienti locali. Li accomuna la dialettica tra l’origine (meglio se controllata o protetta) e l’originalità, l’adesione a una ‘‘tipicità” tradizionale (spesso idealizzata) e l’offerta di un’esperienza di consumo unica, l’alternatività alla standardizzazione del prodotto industriale e la conformità a un’estetica altrettanto codificata. Tra le pieghe di queste tensioni si sono aperte fondamentali opportunità di crescita e sviluppo per realtà ribelli alle logiche dell’industria e del capitale – così come nelle campagne vignaioli ribelli all’agricoltura industriale e intensiva hanno potuto raggiungere più facilmente la sostenibilità economica – che rimangono tuttavia solo una frazione dell’ampia massa di locali che si nutrono della stessa estetica e medesime parole chiave.

Enoteche, osterie, ristoranti da un lato e vignaioli dall’altro. Città e campagna. Un rapporto che invita naturalmente a immaginare sinergie ma implica anche profondi contrasti tra la sete della metropoli ed il “metabolismo della terra”, per impiegare un altro chiaroscuro efficacemente tratteggiato da Frenchi durante il nostro scambio. Una relazione che deve necessariamente essere pensata non solo in termini economici ma anche politici. La città, dettando la domanda, possiede il potere di piegare il regno delle opportunità e delle costrizioni dei vignaioli, almeno per coloro tra essi che intendano misurarsi con una certa dimensione di scala. In Come vignaioli alla fine dell’estate Corrado Dottori, riflettendo criticamente sul riflusso dalla città alle campagne che ha caratterizzato molte storie recenti di vignaioli, si – e ci – pone una provocazione importante: «Quanto poco incide sui nostri destini il “ritorno alla terra” (…) e quanto importanti sono, invece, le costruzioni di alternativa dentro la natura ibrida delle metropoli nell’epoca della riconversione industriale?» (p. 148). È nelle città che si gioca il cuore del conflitto per l’egemonia culturale, ivi inclusa quella riguardante il gusto e le sfumature che regolano la sua interpretazione? Quanto il desiderio di fuga dall’alienazione urbana e industriale verso un rapporto più organico con la natura nelle campagne si traduce in una rassicurante ma pericolosa sottrazione dal piano del conflitto? I quesiti sono di quelli destinati a rimanere aperti, insolubili ma fondamentali, per continuare a riflettere criticamente senza smettere di agire e percorrere nuove strade.

Altrettanto importante, tuttavia, è mantenere lo stesso scrutinio critico nei confronti della seconda metà della provocazione posta da Dottori. La costruzione di spazi critici da cui poter ricavare reddito o trascorrere il proprio tempo libero, dove poter socializzare, cospirare, immaginare e praticare alternative sottraendosi il più possibile dalla complicità con le logiche feroci e spietate del capitalismo, rappresenta di per sé un patrimonio prezioso e fondamentale. Anche questa immagine tuttavia rischia di diventare una narrazione confortante ma semplificatoria, poiché applicata ad attività commerciali che per contaminare ciò che sta fuori da loro devono necessariamente anche aprirsi alla contaminazione altrui; che all’impegno etico, sociale o politico che sia, devono bilanciare la sostenibilità di mercato; che compartecipano proprio malgrado a processi urbani altamente distruttivi e latori di diseguaglianze quali per esempio la gentrificazione – in cui il ruolo del cibo e del bere artigianali è tanto rilevante da aver portato a coniare il neologismo foodification. Dunque, anche per ostesse e osti, diventa fondamentale interrogarsi in quali forme e a quali condizioni enoteche, bar, ristoranti critici possano giocare effettivamente un ruolo nella costruzione di alternativa fuori da sé, dai propri spazi, in relazione con la natura ibrida delle metropoli e i suoi conflitti. Anche in questo caso, domanda aperta, insolvibile, a cui è possibile fornire infinite risposte. Mi limito, nel mio caso, ad avanzare una problematizzazione, come modesto contributo a un dibattito che spero possa proseguire su L’Almanacco e oltre.

Essa riguarda l’individualizzazione spesso persistente della figura dell’artigiano-vignaiolo o artigiano-oste1 (o birraio). Questa individualizzazione è radicata in entrambe le caratterizzazioni della figura: viene declinato e celebrato al singolare – e quasi sempre al maschile2 – l’artigiano sia in qualità di homo faber che di “imprenditore di sé stesso”3. Certamente il vignaiolo e l’oste si concepiscono volentieri in forma connettiva e reticolare con altri artigiani, altre realtà, nelle formulazioni più avanzate con altre forme viventi e materiali. Tuttavia, diventa spesso implicita in questa formulazione l’attribuzione all’artigiano-individuo – o alla singola realtà artigianale – del ruolo di attore protagonista del cambiamento sociale. Il rischio concreto è di riproporre, da una prospettiva militante, una visione pericolosamente convergente con quella del primato dell’imprenditore e dell’impresa come attori politici, tanto cara al neoliberismo e alla Silicon Valley.

Un’altra conseguenza dell’individualizzazione della figura dell’artigiano è la sua romanticizzazione – o feticizzazione, impiegando un vocabolario più propriamente Marxiano. La romanticizzazione dell’artigiano come homo faber è componente necessaria e integrante del suo successo economico e auto-realizzazione lavorativa ma offusca molteplici rapporti sociali e processi culturali in atto, inclusi quelli di sfruttamento. È importante, dunque, problematizzare questo quadro.

Innanzitutto, la centralità simbolica acquisita dal lavoro artigianale dell’oste-artigiano nella metropoli porta all’offuscamento degli altri passaggi, produttivi e logistici, che avvengono nel ciclo di vita dei prodotti, dall’origine allo smaltimento. Di questo ciclo di vita, tipicamente, solo il legame tra il produttore delle materie prime e l’artigiano che le lavora materialmente o simbolicamente per l’esperienza di consumo finale mantiene centralità, in una forma che comunque viene narrativamente ricostruita e determinata dall’artigiano. Altri passaggi altrettanto fondamentali, tuttavia, dai braccianti e operai che raccolgono le uve o i luppoli, fino al lavoro di logistica per il trasporto e smaltimento di materie prime e beni di consumo, rimangono invisibili.

La feticizzazione del lavoro artigiano offusca anche i rapporti sociali di produzione interni all’osteria, enoteca, bar o ristorante. Per l’artigiano, ciò fa parte delle note contraddizioni del “lavoro passionale”: la retorica della passione, coinvolgimento e auto-realizzazione attraverso il proprio lavoro offusca l’auto-sfruttamento che esso comporta, soprattutto in termini di sovra-lavoro e assenza di confini tra vita lavorativa e privata. Tuttavia, ancor più grave dell’autosfruttamento è lo sfruttamento altrui, che lo stesso meccanismo facilita sulle altre lavoratrici e lavoratori. Infatti, la stessa retorica tende ad estendersi anche alle altre persone che lavorano nel locale, alle quali sono spesso riservate le mansioni più manuali, faticose e meno gratificanti4 (come camerieri, aiuto-cuochi, lavapiatti, etc.). Così, la romanticizzazione del lavoro artigianale aumenta il rischio di oscurare lo sfruttamento di persone che a conti fatti non beneficiano nemmeno delle componenti più qualificanti e gratificanti del lavoro artigiano.

Terza e ultima conseguenza critica di questa feticizzazione è costituita dal rovescio della medaglia della meritoria valorizzazione del patrimonio culturale e gastronomico popolare. La celebrazione del lavoro di recupero svolto dall’artigiano in tal senso oscura lo sradicamento di questo patrimonio dal proprio contesto popolare e il suo adattamento per una classe media che desidera il genuino e l’autentico ma in forme assai più gourmet, raffinate ed esteticamente codificate. Osterie, trattorie, locande, taverne – come le frasche, fraschette, crotti, piole, etc. che ne costituiscono varianti locali – nelle loro declinazioni contemporanee sono diventate tutte di fatto sinonimi, perdendo le distinzioni originali. In aggiunta, la loro funzione sociale appare ribaltata rispetto alle realtà da cui mutuano il nome: da luogo dove bere e mangiare per chi non può permettersi altro, a luoghi dove pagare un sovrapprezzo (necessario) per mangiare e bere prodotti di alta qualità e con alto valore etico. Intendiamoci, difficilmente all’artigiano-oste può essere imputata la responsabilità di tutto questo. Le radici sono sistemiche: mangiare e bere genuino è passato dal venire considerato una costrizione per coloro rimasti ai margini delle “magnifiche sorti e progressive” al costituire un privilegio nel perimetro della metropoli post-industriale, riservato a chi può pagarne i costi. Dietro a questo apparente paradosso, naturalmente, sta la profonda trasformazione di ciò che si intende per cibo (e vino) genuino stesso, come richiamato sopra.

Cosa possono, dunque, contro queste forze strutturali soverchianti, i singoli artigiani? Poco o nulla, appunto. Solo dalla decostruzione della loro individualizzazione romanticizzata può passare un “ridimensionamento felice” del loro ruolo. Felice perché, liberati da un’attribuzione di responsabilità e protagonismo eccessivi sia nelle esaltazioni dei meriti che nelle critiche feroci, essi possono trovare un proprio ruolo più modesto ed equilibrato, come parte di coalizioni sociali composite e moltitudinarie con un obiettivo comune: sovvertire le gerarchie tra il metabolismo della terra e la sete della metropoli, pensarsi collettivi, rafforzare i legami più autenticamente politici tra città e campagne.

[1] La scelta di accomunare un oste – gestore di un ristorante o un’enoteca – alla figura dell’artigiano richiede una precisazione. Essa segue un recente filone di ricerche che identificano come tratto caratterizzante del nuovo artigianato urbano la compresenza di lavoro simbolico e materiale. In tale prospettiva, l’oste può essere considerato artigiano oltre che commerciante in quanto egli intermedia ed influenza il gusto e le scelte dei consumatori sulla base della propria conoscenza specialistica, reputazione e rapporto personale con i clienti, oltre a plasmare un’esperienza di consumo autentica e particolare in relazione diretta col consumatore finale.

[2] La ricerca accademica mostra come anche all’interno di realtà neo-artigianali persista una chiara divisione di genere nello svolgimento delle funzioni, sia quando essa coinvolga colleghi sia quando coinvolga unità familiari, nella quale le attività più propriamente artigianali rimangono appannaggio maschile mentre le attività femminili rimangono tipicamente più accessorie.

[3] Affiora qui una suggestione che abbiamo fino ad ora ignorato, e che meriterebbe assai maggiore approfondimento: ovvero il parallelismo tra l’identificazione della figura storica dell’artigiano con la classe piccolo-borghese, e il legame profondo tra nuovi artigiani e classe media nell’era della sua crisi e precarietà permanente.

[4] In questo caso, le medesime considerazioni possono essere considerate valide in linea di principio per la divisione del lavoro nelle vigne, specialmente per i lavoratori stagionali durante la vendemmia.


Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 36
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 11 Giu 2025

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