CAPITALISMO CIBERNETICO
È il titolo del nuovo libro di Renato Curcio edito da Sensibili alle Foglie. Partendo da questa produzione editoriale abbiamo fatto tre domande all’autore

A cura di LTT
Illustrazione Cyop&Kaf


LTT: «Tra il 2020 e il 2022, negli anni dell’irruzione della pandemia Covid-19, i dieci uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i propri patrimoni, passando da 700 a 1500 miliardi di dollari, ad un ritmo di 15000 dollari al secondo, 1,3 miliardi al giorno. Nello stesso periodo 163 milioni di persone sono cadute in povertà. Amazon? Son trentuno miliardi di dollari i soli ricavi pubblicitari nell’ultimo anno». Col titolo del tuo nuovo libro, Capitalismo Cibernetico, metti il lettore «di fronte al primo responsabile effettivo del divario sociale galoppante e distruttivo. Non una tecnologia, non le big tech, non l’intelligenza artificiale, ma un modo di produzione, una formazione sociale, nel suo indissolubile insieme». Sostieni che «la forbice allargata delle diseguaglianze sociali non è affatto una disfunzione temporanea e rimediabile con qualche salvifica politica di transizione. Al contrario, le tanto acclamate transizioni ecologiche, transizioni digitali, transizioni energetiche altro non sono che la conseguenza strutturale dell’accelerazione indotta dall’applicazione sempre più diffusa delle tecnologie di intelligenza artificiale in chiave capitalistica; il riflesso sull’intera formazione sociale e su ciascuna delle istituzioni che ne articolano l’infrastruttura, della riorganizzazione in chiave digitale del modo di produzione capitalistico». 

L’approccio che proponi considera «l’intreccio tra umani e macchine IA come una costante decisiva e caratterizzante dei processi di qualsiasi genere che incontriamo nel continente digitale». Segui «un doppio percorso di esposizione della ricerca incentrato sulla relazione dialettica tra le micro-dimensioni dell’agire sociale e le macro-dimensioni che ne sovra-implicano gli andamenti. Una questione determinante dal momento che quasi nessuno più orienta il suo cammino senza uno smartphone in tasca; senza che Google-Android o Apple-IOS sovra determino in qualche modo la sua percezione dell’ambiente, del territorio e del paesaggio in cui transita, degli eventi che gli succedono, delle opportunità di scelta che nel continente digitale gli vengono offerte». Nel libro inoltre, citando il lavoro di Shoshana Zuboff, dedichi un capitolo al Potere Strumentalizzante, «un potere che ci obbliga a nasconderci e proteggerci dalla sua sorveglianza. Essendo sempre più indotti ad interagire con le tecnologie digitali, i computer, le applicazioni e i dispositivi mobili siamo infatti sempre più esposti, osservati, monitorati, tracciati e studiati dai sistemi algoritmici. Se cerchiamo uno spazio libero dalla sorveglianza questo lo possiamo trovare solo nella sottrazione».

È possibile attuare questa sottrazione, trovare e costruire degli spazi liberi, indipendenti, autogestiti? È possibile sottrarsi alle tecnologie proprietarie che stanno spingendo tutti verso contesti obbliganti in ogni ambito delle nostre esistenze? È possibile costruire spazi fuori da questo «capitalismo cibernetico» così spietato, pervasivo? Tenendo ben presente che, come scrivi, «chi ancora lo fa viene a poco a poco espulso e confinato nella riserva residuale dei viventi inesistenti».

RC: «Sottrazione» è una indicazione suggerita da Shoshana Zuboff.  Anche altri analisti comunque di recente hanno cominciato a lanciare l’allarmato invito a «Sganciarsi dalle piattaforme». Più d’uno sottolinea la finzione di quel gioco di comunicazione e la sua funzione, ad un tempo, di cattura e commercializzazione di dati e meta-dati, controllo degli account e idiotizzazione di massa auto-procurata. Ma il punto è: quale significato possiamo realmente attribuire a questa «sottrazione»?

In quanto tale, essa è soltanto una reazione difensiva. Importante, certo, ma niente più di una precondizione. Sottrarsi alla coazione delle piattaforme ti mette più che altro nella condizione di «poter fare altro» e cioè qualcosa che contribuisca a rafforzare la tua autonomia e la tua ricchezza relazionale. Una condizione che però tocca poi a te riempire di significato. Questo significato per Zuboff non va oltre l’indignazione da spendere nella vaga prospettiva di un futuro «capitalismo democratico dell’informazione».

Come Ulrike Meinhof, invece, io non penso affatto che l’indignazione costituisca un’arma adeguata; e come Samah Jabr penso invece che all’indignazione vada preferito un atteggiamento aperto di sfida alla sopraffazione e all’oppressione. Di «sottrazione istituente», se preferisci, orientata a rafforzare un immaginario radicato nell’interesse pubblico e saldamente ancorato al principio della reciprocità condivisa.

In questa prospettiva, «la riserva dei viventi inesistenti prodotta dal ‘capitalismo cibernetico’ come suo scarto» – sia nel contesto geopolitico occidentale che in altri e più vitali contesti sul pianeta – si presenta come il soggetto umano a cui mi sento più vicino e che mi auguro riesca infine a capire come fare leva sulla condizione in cui è stata precipitata, per costruire l’altrove positivo di questo sistema negativo che, inseguendo l’illusione allucinata di un profitto sempre più immenso per i suoi pochi e stramiliardari nababbi, spinge miliardi di persone in un domani di guerre, rovine e di infinita tristezza.

LTT: Nella tua esplorazione scrivi che «ha preso vita una nuova e temibile forma di potere. Il potere cibernetico delle macchine intelligenti sui singoli individui.

Con l’affermarsi del capitalismo cibernetico la forza dei legami orizzontali – familiari, amicali, di appartenenza culturale e politica – hanno perso consistenza e il destino di ciascuna persona cibernetica è stato progressivamente trasferito e consegnato alla scomposizione sistemica indotta dalla sua digitalizzazione. La solitudine della sua riduzione a pacchetto elementare di dati e metadati ha preso il posto per millenni occupato dall’appartenenza a un insieme di insiemi relazionali. Il dissolvimento progressivo dell’umano».

Nelle nostre vite sociali sembra che quanto scrivi sia terribilmente vero e sottovalutato. Questo scenario dove porterà l’Homo Sapiens, animale sociale? A quali interazioni e relazioni sociali? A quale civiltà?

RC: Non lo sappiamo. Ma questo non è un limite. Prefigurare l’utopia non ha mai portato bene a chi lo ha fatto e comunque a me non sembra che servano utopie per costruire giorno dopo giorno relazioni di buona reciprocità con altri umani. Servono invece cantieri d’intelligenza sociale – tanti cantieri – come quello che insieme abbiamo appena concluso sulla digitalizzazione del lavoro sociale – per l’approfondimento collettivo delle prospettive sulle quali indirizzare il cammino. Cantieri che potranno darsi sempre nuove e più avanzate mete riflettendo sui risultati delle loro stesse pratiche.

Alla distruzione di risorse d’ogni tipo che caratterizza il modo di produzione capitalistico nella sua attuale versione cibernetica ciò che mi sembra vada contrapposto è anzitutto la migliore delle capacità umane: l’energia creativa delle relazioni sociali aperte, e però anche guardinghe rispetto ad ogni eventuale insorgenza di qualsivoglia prevaricazione.

LTT: «L’implicazione energivora di Internet non è meno allarmante della sua vocazione totalizzante. E ciò per due ragioni concorrenti. La prima è la bulimia energetica che cresce con l’accrescersi dell’infrastruttura…
Le macchine digitali per alimentare i loro magneti basilari e il funzionamento di Internet, della banda larga, divorano enormi quantità di energia. Sporca? Pulita? Carbone? Petrolio? Gas? Fusione nucleare? Fissione nucleare? Da qualche parte questa enormità energetica dovrà pure essere ricavata e se già sappiamo quali e quanti disastri ambientali devastanti ci stanno piovendo addosso per le fonti energetiche a cui ha selvaggiamente attinto il capitalismo industriale del novecento – e alle quali comunque continua ad attingere – nulla sappiamo ancora di come potrà essere prodotta una quantità di energia assai maggiore rimediando, nel contempo, agli scempi generati da quel micidiale cammino».

«(…) La seconda si radica nella scarsità di terre rare – litio, coltan, cobalto, in primis – e nell’abbondanza inumana dei conflitti geopolitici per il loro impossessamento. Per farsene un’idea si pensi alla richiesta di litio che cresce a ritmo esponenziale poiché senza di esso le batterie di un gran numero di macchine e dispositivi digitali smetterebbero immediatamente di operare».

Quanto descrivi presagisce due scenari: un futuro caratterizzato da devastazione ambientale globale, povertà, guerre e miserie per vaste aree del pianeta, oppure un Capitalismo Cibernetico destinato a implodere perché impossibilitato ad alimentarsi. La prima ipotesi la stiamo già saggiando e si fa sempre più probabile. La seconda non è detto che non porti anch’essa devastazione e miseria. Può questo capitalismo implodere e portarci un futuro diverso e veramente migliore o il futuro, in ogni caso, sarà nefasto? 

RC: In quanto all’implosione del capitalismo cibernetico non possiamo affatto escluderla ed anzi, se ci guardiamo freddamente intorno, dobbiamo riconoscere che i segnali di una sua eventuale attenuazione, se mai ci sono, sanno davvero occultarsi molto bene. Diseguaglianze sociali crescenti, monopoli con ambizioni planetarie, conflitti pilotati verso esiti di guerra, rapina bellica delle risorse, replicazione espansiva e robotica dei dispositivi istituzionali totalizzanti, esibizioni suprematiste delle «pelli bianche» negli USA, in Gran Bretagna, in Europa, tolgono l’ultimo ossigeno alle ormai stordite democrazie occidentali. D’altra parte, sulla bontà d’animo degli algoritmi intelligenti sarebbe anche stupido far conto. Il cuore del capitalismo cibernetico è una scatola nera in tutti i sensi; una black box entro la quale ogni riga di codice è accuratamente brevettata e dunque resa opaca, nascosta agli occhi ormai vitrei di chi neppure quando dorme li stacca più dagli schermi. Ma che, se potesse essere osservata al suo interno, ci spingerebbe tutti a morire d’angoscia!

È anche vero però che, posti come siamo di fronte al baratro, si possono fare solo due cose: buttarcisi dentro a capofitto; oppure, prendere atto dei limiti fin qui spettacolarmente esibiti dalla nostra specie, noi compresi ovviamente, e convincerci che coltivando una scelta di discontinuità radicale, si potrà forse ancora immaginare un futuro evoluto di specie. Forse. Ma come diceva Marx: ça dépend!

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 25
16 pagine | 24x34cm | Carta Nautilus Classic gr 100 | 2 colori


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Last modified: 13 Ago 2022

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