Benvenuti alla Trattoria Anita

Ritrovo Anita nella descrizione che fa Francesco Falcone, il Falco, di una sua osteria del cuore in Romagna “(…) un’osteria. Di quelle vere, autentiche, senza alcuna tentazione ulteriore. Un’osteria e basta, curata tuttavia con una sensibilità per la nostra storia, con un ossequioso rispetto per l’umanità dei luoghi, con una dedizione totale alla felicità altrui. (…) Piena di ossigeno vitale che funge da baluardo contro la civiltà dell’impazienza. (…) Un piccolo tesoro sottratto alle pagine ingiallite di un vecchio libro di sociologia, un contenitore di rughe e pieghe, con i segni di ieri e le memorie di oggi.”
Anita è un tesoro, luogo che respira di naturale schiettezza.

testi di Daniela Quaresima e Nino Scaffidi
immagini di Francesco Zizola, Sergio Ramazzotti, Daniela Quaresima.

Foto di Sergio Ramazzotti.

DAL PUNTO DI VISTA DI UNA FIGLIA
di Daniela Quaresimavignaiola de La Marca di San Michele, Cupramontana (AN)

Dal 1928 questa trattoria è sempre stata declinata al femminile: donne le proprietarie, donne le cuoche, le nonne, le mamme e le figlie. Agli uomini il ruolo di camerieri, cantinieri, contabili e cantastorie. La storia inizia con la Moretta, che lascia il passo ad Anita, mia nonna, che a sua volta lo cede a sua figlia Jolanda. Poi ci sono io, figlia di Jolanda, come semplice interprete. Questa non vuole essere una presentazione del locale né tanto meno un menu, ma un semplice ed utile vademecum per condurvi tra le scelte e le non scelte di questa realtà ferma nel tempo. Un giorno lessi da qualche parte che se ci fossero ancora le osterie di una volta, non ci sarebbero più uomini soli. Ecco Anita è ferma a quel tempo. Al vostro ingresso troverete già un tavolo apparecchiato con biancheria di cotone bianca o al massimo a quadretti e nell’ordine vi arriveranno: un cestino di pane del forno locale, acqua del rubinetto e una bottiglia di sfuso della casa che se non bevuto non vi verrà conteggiato. Se invece volete scegliere una bottiglia, chiedete espressamente la carta dei vini e un calice grande, perché qui viene dato per scontato il verdicchio sfuso della casa. E insistete, non passerete da maleducati. A scandire il ritmo è il Verdicchio, accompagnato anche da Trebbiano, Montepulciano e Sangiovese: la vecchia e la nuova generazione. I convenzionali, i biologici e i biodinamici. Lo sfuso, le bottiglie, i diversi personaggi, chi ha la doc, chi ne esce. Sono i vini che si abbinano con maggiore facilità alla nostra cucina e che soprattutto ti raccontano il territorio di San Michele. Il menu con tutte le sue varianti viene narrato da chi vi accoglie. Vi tocca fidarvi. Oltre ad una scelta di primi, secondi e contorni più ampia, qui si rispetta la tradizione: lunedì trippa o ceci; mercoledì vincisgrassi; giovedì gnocchi; venerdì baccalà al forno con patate; sabato porchetta. La domenica è domenica. Un tripudio. Il menu non è volutamente chilometrico perché si predilige il fresco, la cucina espressa e la concentrazione delle forze. Il brodo per antonomasia è quello di gallina, specificare se si vuole quello vegetale, e i sughi sono sempre di giornata e bollono almeno per quattro ore. La pasta viene fatta a mano due volte alla settimana da un capannello di donne che tra una ciarla e l’altra impastano, farciscono, tagliano e chiudono. Le carni, i formaggi e i salumi sono a KM 0 o al massimo a 15KM, non si va più in là. Donatello conosce da sempre tutti i produttori dai quali acquista. E’ lui insieme a i suoi amici a cacciare la selvaggina, una delle specialità della casa. Le verdure sono tutte di stagione e provengono dall’orto di casa. Un orto comunitario coordinato dall’attento Gianni, dove ci si aiuta e ognuno torna a casa con un cesto di prodotti freschi. Non chiedete i fagiolini a dicembre, perché qui ancora vale la suddivisione delle stagioni del sussidiario di scuola. Il conto a voce singola non è destinato ai turisti perché più facile da gabbare, ma è da tempo immemore la ricevuta di questo locale. Potete comunque chiedere di dettagliare le voci. Qui non si fanno distinzioni di prezzo tra il menu turistico o il menu locale. Davanti al piatto siete tutti uguali. Vi prego di godervi la scenetta di dettatura del conto tra i due proprietari, sotto lo sguardo imbarazzato dell’avventore di turno. Che fatica, a volte penso, ma non farebbero meglio a seguire il menu?

Il locale in basso è una vecchia osteria, forse una delle ultime rimaste. Qui potete portare i vostri panini, eccetto quello con la porchetta se volete salva la testa, e ordinare solo il bere. Spartana, ma con anima e con avventori di ogni età. Sarà per l’età o perché siamo in centro Italia, qui il bisbigliare o il sussurrare è sconosciuto. Urlano. Tutti. Il locale al primo piano, quello della trattoria, è più discreto, se si tralasciano gli ordini urlati (di nuovo) tra il mio babbo, la mia mamma, il cameriere e le signore in cucina. Ecco credo di aver toccato più o meno tutti i punti salienti di questo posto. Per me crocevia del mondo. Qui indirizzo tutti quelli che mi chiedono dove mangiare, perché so che non mangeranno solamente, ma verranno nutriti e accuditi dall’amore autentico per il cibo e dalla gioia di servire, nel senso più nobile del termine, della Jole e accompagnati e divertiti dai racconti di quell’oste burbero di Donatello.

Ogni pietanza era un’opera d’arte. Era il prodotto di un lavoro artigianale che sfortunatamente stava passando di moda, insieme ai vestiti larghi, alle lettere d’amore e ai valzer.
Laura Esquivel, Come l’acqua per il cioccolato.

Cupramontana, un dipinto degli anni 70 che raffigura la sala della trattoria Da Anita

DAL PUNTO DI VISTA DI UN VIAGGIATORE
di Nino Scaffidi 

Non so guidare, ma adoro andare per valli e borghi inesplorati. Una passione che condivido con Gianni, un mio amico rientrato da Berlino – “divertente, ma fredda” dice patentato, senza un dito in una mano, l’anulare… È mezzogiorno di un sabato iridescente di metà settembre, a Cupramontana è tempo di vendemmia. Il paese è adagiato sui promontori che sormontano la valle del fiume Esino, i luoghi dei Castelli di Jesi. Un territorio non lontano dal confine storico della popolazione dei Piceni con quella degli Umbri, entrambi devoti alla grande madre Cupra – da qui il toponimo (Cubrar, nome umbro; Ikiperu, nome piceno), dea ctonia delle acque e del rame, Dea Rossa feconda, libera, orgiastica e lussuriosa. È tempo di vendemmia a Cupramontana, cuore pulsante nelle terre dell’antico Verdicchio, il vino che “sale alle nari, raggiunge il cervello, rianima il nostro oppresso e sfiduciato cuore”. In un baretto tra i tanti io e Gianni buttiamo giù il nostro sorso e ci incamminiamo alla scoperta del borgo. In effetti essere qui in tempo di vendemmia è un po’ come stare a Capri a Ferragosto o a Vienna per Capodanno. Anche la piazza principale sembra disegnata come una vigna: vicoli in pendenza, palazzi settecenteschi a far da filari e una cinta intorno a delimitarne l’area. Trattori con cassette per raccogliere l’uva, sguardi curiosi, bambini vivaci e camicie a quadrettoni tipiche campagnole, ma che poi trovi rincarate nei negozi vintage di città e le chiamano grunge. Guidati da un allettante profumino, è in un vicolo che ci inoltriamo. Un brusio indistinto di voci, qualche risata… La Trattoria Anita sembra scavata nella roccia. È il classico posto che aneli percorrendo il dedalo di viuzze di un qualsiasi paese del centro Italia. Fanno parte del nostro dna questi posti. Luoghi intrisi di una memoria antica, di un atavico e sincero sentimento di comunità. Già sull’uscio gli avventori del locale ci squadrano dalla testa ai piedi e noi squadriamo loro. È un gioco di occhi, telepatie spicciole, paradigmi di convivialità, antichi codici da osteria.

La vera sorpresa è vedere anziani del posto e giovani evidentemente forestieri seduti insieme. Alcuni parlano inglese, altri solo marchigiano, ma al tavolo ci si capisce e se non ci si capisce con le parole, lo si fa col cibo. Empatia pura con un sottofondo in odorama di sughi e di selvaggina. Buongiorno, buongiorno e ci sediamo. Banconi in legno vivo compongono la sala d’ingresso, accanto a noi il viso rubicondo di un uomo che con soddisfazione termina il suo piatto di tortelloni. Qui monsieur Verdicchio la fa da padrone. È la prima cosa che Donatello ci porta insieme a una bottiglia di acqua.

Donatello. Foto di Sergio Ramazzotti.

Donatello
Donatello è il gestore del locale, o meglio il “cogestore”, anzi: Donatello è il marito di Iolanda, Iole, vero motore della trattoria. Da quasi cento anni infatti la Trattoria Anita è gestita da donne. Non è una favola, ma sui monti del Centro Italia questa trattoria è una sorta di gruppo autogestito di sole donne in anticipo sui tempi. Donne intraprendenti, realmente impegnate in ambito lavorativo. Tutte donne. Certo sempre dietro ai fornelli, ma con la loro indipendenza e con uno stipendio a fine mese.

Donatello ci accoglie in veste di cameriere/cantiniere decantandoci il menu con tutte le sue varianti. Parla di porzioncine, di fettine, di bocconcini, ma basta uno sguardo ai piatti degli altri tavoli e ci accorgiamo che le porzioni appartengono ad un’era pre-diete, pre-vegetarianesimo e pre-­veganesimo.  La sensazione è che se non finisci quello che hai nel piatto qualcuno verrebbe a chiederti “E che fai, nun magni?!?”. Le specialità della casa sono i vincisgrassi, le tagliatelle, i tortelloni e gli gnocchi con sughi di giornata, specialmente a base di carne, papera, maiale, manzo. Tra i secondi l’agnello ai ferri, il coniglio in porchetta, il baccalà al forno, ma anche la polenta con stoccafisso, porchetta e cacciagione.

Una camionista di 90 anni
Io gnocchi al ragù di papera, Gianni vincisgrassi. Di secondo divideremo un piatto di baccalà con le patate.

Al tavolo accanto è seduta una coppia di giovani e con loro un’anziana donna in sedia a rotelle. I giovani quasi non mangiano, ma guardano l’anziana mangiare di gusto una grossa porzione di zuppa inglese. La donna in sedia a rotelle ci sta osservando e senza troppa malizia chiede a Gianni del suo dito mozzo. Non ci sono mezze misure qui dentro, si è già in famiglia, il senso di privacy è lo stesso che hai quando in India ti siedi in contemplazione lungo il Gange o a Dublino al bancone di un pub. Inesistente. Tra un boccone e l’altro Gianni racconta del suo incidente in moto e così iniziamo a chiacchierare. La vecchina festeggia oggi 90 anni. I nipoti l’hanno portata in trattoria per l’occasione. Ma lei ci tiene a puntualizzare che quando ne ha voglia in trattoria ci va anche da sola. È originaria di Milano e, pensa un po’, ha fatto la camionista per più di 40 anni andando su e giù per tutta Italia. Non lo diresti mai, anche perché ti appare minuta e delicata, in sedia a rotelle per giunta. Figurati una donna così alla guida di un camion negli anni sessanta: un’altra self-­made woman. I suoi 90 anni sono invidiabili, come la sua voglia di raccontare e il suo appetito. Il fatto è che viene voglia di far festa, di festeggiare anche noi un compleanno qualsiasi, fossero anche novanta o cento gli anni! Sarà la bontà del Verdicchio, dei vincisgrassi, dei salumi o del baccalà, qui l’atmosfera è davvero conviviale. Se un argomento è particolarmente interessante, allora la conversazione diventa partecipata. Così è stato il dito mozzo. In effetti stare a tavola non significa semplicemente sfamarsi, ma è un momento conviviale necessario allo spirito. A tavola ci si incontra, si discute, si fa esperienza e si intrecciano altre storie, un po’ come accadeva nel pranzo trasteverino del film Roma di Federico Fellini o come nelle tavolate domenicali delle nostre campagne.

Iole. Foto di Francesco Zizola

Iole
Ha una voce esile, sorriso lieve e uno sguardo faceto che ti inchioda. Già ti conosce e ti accoglie. Indossa il grembiule come un abito da sposa. Ogni giorno è il suo matrimonio con i clienti e il suo lavoro. Qui da Anita, se nell’atmosfera senti la bonarietà di Donatello, nel cibo senti l’amore di Iole, la sua gioia quotidiana di entrare nel locale che fu della mamma e di indossare quel grembiule. Un rito quotidiano, silenzioso, come quando gli alberi in primavera danno i loro frutti. È questo l’ingrediente segreto: l’amore. Ci sono clienti che vengono da tutta Europa, molti irlandesi, inglesi, belgi, brasiliani, tedeschi, olandesi. Ognuno torna a casa con una porzioncina di amore di Iole. Torna arricchito, oltre che ben sazio. Siamo sazi anche noi, emozionati. Chiediamo il conto e anche lì è una gag. Donatello chiede “il mangiato” alla Iole e allora inizia una recita, un siparietto tra marito e moglie che suggella la nostra esperienza e ci invade di simpatia. Ci offrono ciambellone e mistrà. Fuori dal locale, sul vicolo una panca: c’è chi fuma con soddisfazione, chi chiacchera allegramente, chi è assorto in uno stato di profondo benessere suscitato da chissà quale pietanza. Forse il termine “Vincisgrassi” ha la stessa radice di “Vipasyanã”, chissà…
“Le trattorie come queste hanno il loro lato mistico”, dico a Gianni, “se non fosse vegetariano, Buddha pranzerebbe qui”. E per la prima volta noto la sua impressionante somiglianza con l’Illuminato. “A me pare che mi sia ricresciuto il dito”, risponde.

Trattoria Anita
Via F. Filzi, 5 – Cupramontana (AN) 

La Marca di San Michele, Cupramontana (AN) 
lamarcadisanmichele.com

da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 15
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori

Claudio. Uno di famiglia. Foto di Daniela Quaresima.

Last modified: 26 Feb 2020

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