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Era solo un ragazzo

ImpressioniL'Almanacco

Era solo un ragazzo è un poema sulla pedagogia dei padri edito da Sensibili alle foglie, l’8 febbraio del 2019. Trentasei canti di “un abbia corpo d’amore in amore per l’insegnamento del padre, nell’accoglimento del figlio”, trentasei canti di “un discioglimento del ragazzo nel padre, di un liberami padre del padre nel ragazzo”.
Introduzione di Nicola Valentino.
Postfazione di Mattia Pellegrini.
Riscrittura digitale di Claudia D’Oriano. 

VI
Quando mio padre decise d’insegnarmi come scrivere correttamente la A
era solo un ragazzo
ma ci mise impegno, non tralasciò i più seri argomenti
anche se era un ragazzo
mio padre sviluppò un metodo talmente preciso e perfetto
che in una sola lezione, per quanto lunga
mi ha insegnato tutto quello che c’era da sapere sulla A
ed è la stessa A che tuttora scrivo
proprio come mi ha insegnato mio padre.

Quando mio padre m’insegnò la A
era solo un ragazzo
che aveva smesso da poco di bucarsi
ed io, oggi, penso alla forza che mio padre ha avuto
per uscirne, per salvarsi e al contempo per crescermi
e per insegnarmi tutte le cose che mi ha insegnato
per insegnarmi il modo in cui sono e che so
portarmi dietro in tutto il tempo che s’infutura
nell’ecco più duro d’ogni passato che avrò domani.

Quando mio padre mi spiegò come disegnare la A
mi prese e mi mise sulla sedia, con una penna e un foglio davanti
e mi disse fai la A, falla un po’ di volte.
Io ne feci sette, e furono sette A uguali
uguali a quelle che avevo sempre fatto, uguali l’una con le altre.
Allora mio padre disse non è così la A, la A si fa così.
E ne fece una, sullo stesso foglio delle mie sette A
e poi: rifalla.
E io la rifeci, ma non era la stessa, era a metà fra le mie e la sua.
E mio padre allora mi bruciò fortissimo una guancia
con il legno della sua mano dal mento all’orecchio
e disse che ero un mongoloide a non saper fare la A
perché la A si fa come la faceva lui
e solo un mongoloide non la sa ricopiare.

Quando mio padre m’insegnò la A
era solo un ragazzo
ma non mollò, non demorse
ci si impegnò di brutto, diede tutto
ed è solo grazie alla sua tenacia
a quell’intero pomeriggio di urla, schiaffi e cuore rotto in faccia
che io adesso ho la sua A
che indiscutibilmente è più bella di quella che avevo io
questa si può vedere, l’altra era inguardabile
questa è come una rosa, l’altra come un’ortica
e, anche se potrebbe sembrare difficile crederlo
mio padre fu ancora più utile quando m’insegnò
con lo stesso metodo l’intero alfabeto
dalla B alla Z fu dura, fu tosta
ma anche lì riuscimmo e ancora adesso
dopo così tanti anni
mentre scrivo queste righe
l’alfabeto di mio padre è incollato ad ogni cosa che scrivo
il suo alfabeto luccica da tutti i taccuini che ho
riempito in questi molti anni di poesia.

Quando mio padre m’insegnò la forma giusta delle lettere
come scrivere quello che scrivo
era solo un ragazzo appena risorto
un ragazzo affamato che voleva soltanto
prendere in braccio ogni santo del paradiso
cacciare via ogni scimmia dalla testa
solo un ragazzo che voleva l’amore fosse una festa
solo un ragazzo che con gli sgobbi pensava di farci svoltare per sempre
solo un ragazzo che stava diventando padre per sempre.


XVIII
Quando mio padre tornò a casa da quella serata
andò per prima cosa a dormire
che era stanco e il giorno dopo aveva un trasloco
ma si addormentò con una sensazione strana
sentiva uno star fuori posto nella mano sinistra
ma era stanco e andò a dormire.
Il giorno dopo, mentre si caricava una lavatrice
mio padre capì meglio quel fuori posto nella mano sinistra
c’era un fuori posto nell’anulare
l’anulare gli era rimasto a gancio
non si stendeva più del tutto, gli era rimasto rigido
in una forma a metà tra lo steso e il piegato
era un dito né disteso, né arrotolato
era un dito che a non stare in ordine disordinava la mano
di un dolore come il dolore di un osso
di un nervo, di un tendine quando sta a metà
quando non può più quel che ha potuto fino ad allora.

Quando mio padre tornò a casa da quella nottata
tornò con un dito offeso, un anulare rotto
e gli era successo così: che al Batucada erano arrivati i fascisti
e mio padre, insieme ai suoi amici, era lì
quando sono arrivati i fascisti
quando da Talenti i fascisti erano arrivati al Tufello
e successe così: che ai fascisti andò male, anzi malissimo
che dietro al bancone Toni aveva una mazza da baseball
e che davanti al bancone c’era mio padre, mio padre ragazzo
che non era la prima volta che incontrava i fascisti
che davanti al bancone mio padre
e gli amici di mio padre, altre bestie
che non era la prima volta che incontravano i fascisti
che qualche anno prima il servizio d’ordine d’Autonomia
l’autoriduzione, l’esproprio, la rapa
figli ragazzi anche loro di Val Melaina e dei Volsci
e successe così: che ai fascisti andò malissimo
che se ne tornarono a Talenti con nasi, costole e zigomi fra le gambe.

Quando al Batucada entrarono i fascisti
mio padre era solo un ragazzo
solo un ragazzo, solo una bestia
e prese, sul finire della rissa, prese uno di quei fascisti
lo prese che era già a terra e lo alzò prendendolo per i capelli
lo poggiò con la schiena inerte al muro
lasciandogli le gambe a terra, distese
lo poggiò al muro come un pupazzo, come un pupo
e lo teneva per i capelli con la mano sinistra
mentre con l’altra mano, nel gesto di forma di un pugno
gli sfondava la faccia
spalancando un largo di angoli nella bocca
serpeggiando una collana di molari nella mascella
e lo teneva con la mano sinistra per i capelli
come si tiene una gallina prima del brodo.

Quando mio padre tornò a casa dal Batucada, quella sera
tornò con un tendine rotto, il tendine del suo anulare sinistro
e gli successe perché al Tufello arrivarono i fascisti
perché era un ragazzo, e nel ragazzo una bestia di ragazzo
e gli successe perché, come mi spiegò il giorno dopo
quel fascista a cui aveva piegato gli zigomi a pugni
quel fascista aveva i capelli corti, non rasati, ma corti
e mio padre, nel tenerlo per i capelli
aveva messo l’anulare in posizione torta e innaturale
con troppa foga e per troppo tempo
spezzandosi il tendine come fra i denti un filo di cotone.

Ed io avrò avuto otto anni
e mio padre era tornato a casa con un dito rotto
perché a mio padre nessuno gli poteva niente
neppure un manipolo di fascisti gli poteva niente
a mio padre nessuno, neppure una squadraccia
e il racconto di quella serata al Batucada, il dito rotto di mio padre
mi hanno insegnato che non era a scuola il tutto dei pugni
non al muretto, per le biglie o per le figurine, il mondo dei pugni
che per tutto quello che c’era da sapere su come è un uomo
quando si sta fra gli uomini e contro gli uomini
bastava ascoltare mio padre ragazzo, mio padre bestia
e sapere che al Batucada, dietro al bancone
c’era una mazza da baseball che Toni
il giorno dopo, aveva pulito dal sangue fascista
con uno straccetto imbenzinato e poi lasciato
consumare dalle fiamme di un piccolo fuoco nasconditore.

XXXI
Un giorno mio padre
già non più ragazzo da tanto
è tornato prima dal lavoro
prima di pranzo, a mezza mattina
ed era chiuso in volto
ed era scuro agli occhi.

Dopo pranzo, mio padre
solo dopo pranzo, mio padre
ha spiegato a mia madre che a lavoro
durante il trasloco, aveva litigato con il padrone
con il suo padrone, con l’uomo capo che decide chi chiamare
per questo o quel trasloco, ogni mattina
l’uomo padrone del lavoro destino di altri uomini
l’uomo capo, l’uomo chiamata, l’uomo lavoro.

Dicendo questo a mia madre
era come se mio padre stesse dicendo
non ci sarà più traslochi per me, nessuna chiamata più
nessun lavoro più: fine, basta, ho sessant’anni
e a sessant’anni, quando sei facchino, il padrone che hai
è il tuo ultimo padrone, il tuo ultimo uomo chiamata
e quindi a sessant’anni, senza più un uomo lavoro
hai perso per sempre il lavoro.

Quando ne abbiamo parlato in famiglia
uno a uno, due a due, tre a tre e poi tutti insieme
mia sorella e mia madre erano le più disperate di quel fatto
del fatto di avere un padre non più ragazzo
senza lavoro più, senza un uomo padrone più
e se hanno detto qualcosa era per dire
a mio padre non più ragazzo
mio padre uomo padre, uomo non più ragazzo
che per l’ennesima volta, una volta ancora
il suo carattere di merda l’aveva fregato
che il suo incazzarsi di quando era solo un ragazzo
non lo avrebbe dovuto, ora che era padre uomo e non più
con il suo uomo lavoro, con l’ultimo suo uomo chiamata.

Io ho ascoltato tutto e ho capito subito
che quello che aveva fatto mio padre
litigando con il suo padrone
era una delle ragioni per cui l’ho più amato e amo
perché quello di non mandare giù merda, nonostante convenga
è stato uno degli insegnamenti di mio padre ancora ragazzo
più preziosi che serbo in modo di vita dentro di me
perché un uomo non può mandare giù la merda
non può, non deve e non deve volere, nonostante convenga
perché un uomo non può essere uomo a metà e a metà maiale
ma uomo intero, uomo intero uomo
e deve poter mandare giù soltanto aria, acqua, piante e bestie
e non merda, nonostante convenga:
la merda non deve mai toccare la bocca e la gola di un uomo
quando l’uomo è intero, uomo intero uomo.

XXXVI
Quando mio padre
solo un ragazzo
era mio padre
per me, ogni altro
ogni amore, ogni tutto.

Da quando mio padre
non più un ragazzo
è mio padre
per me, l’altro
l’amore, il tutto.

Non come lo è
chi in chi è
ma come nel come gesto
scambiato con l’altro
ma come luce invisibile
nello sfavillio in cui riluce
l’invisibile altro.

da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 12
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori

Last modified: 20 Ott 2019

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