Selva, castagno, vigna, stele

Alpi Apuane, prima e oltre. Territori immensi, cime imponenti da valicare per ritrovarsi innanzi a storie di agricoltura minute e funamboliche, tra resistenza e (quasi) follia.

testo e fotografie di Laura M. Alemagna

 

La prima volta che è successo di sentir parlare di questa farina di castagne è stato dalla voce di Andrea Bonini e poche altre volte avremmo ascoltato quell’accesa inflessione di entusiasmo nel raccontarne le doti. Andrea imparavamo a conoscerlo e quell’indirizzo all’attenzione lo prendemmo come un monito granitico. A La Terra Trema!
Erano tempi delicati e convulsi in cui prendevamo in mano una faccenda collettiva, Critical Wine, per partorirne una diversa, La Terra Trema. La Bucolika, di Alessandro Cagnasso, di questa farina di castagne, invece, si dava una forma e cominciava a costruire la sua storia. Prendendo parte al parto. Arrivando da Fazzano, Lunigiana piena, a Milano con quell’odore dolce e fumoso che portava addosso.
Da quella volta sono passati oltre dieci anni e un numero incalcolabile di cian di farina di castagne, ricotta, miele.

Di andare a conoscere da vicino la storia di questa farina di castagne ne parlavamo da sempre. Col tempo, oltre ad Ale Cagnasso, su quello stesso territorio, si andavano aggiungendo nuove conoscenze curiose. Giorgio Tazzara del Monastero dei Frati Bianchi a Fivizzano, prima. Emanuele Crudeli, Manu, delle Terre Apuane qualche tempo dopo. Finalmente, un giorno, siamo partiti.

Fazzano è frazione di Fivizzano provincia di Massa-Carrara. È l’ultimo borgo, salendo per la strada per Pian di Molino, oltre Mozzano. È un luogo solitario, ingoiato da valli boscose, verdissime e da vette che frastagliano il cielo. Tra tutte Pizzo d’Uccello.
Siamo lì sul finire di aprile, la fioritura del frassino è strabordante. Quest’anno particolarmente. La fragranza mielosa che l’accompagna non lascia scampo, la senti forte.
Dopo tornanti, ripide salite e curve Fazzano si apre sui musi mansueti dei cavalli di Ombretta al pascolo.
Poi altari a colori pop a Maria e a Sant’Antonio, poi il borgo, di pietra arenaria.

I had three chairs in my house; one for solitude, two for friendship, three for society
Henry David Thoreau, Walden

Riconosciamo il furgone. È in panne, ancora una volta. Ma è ancora indispensabile, il vecchio guerriero (anche se parte solo a spinta o in discesa).
Alessandro ci viene incontro e ci abbraccia. Da lì comincia presto a raccontare del suo paesaggio.
Castagne a destra, ulivi e vigne a sinistra
I suoi boschi, le api, i cambiamenti del territorio, cambiamenti che conseguono un andamento sociale e geomorfico già sentito, spopolamento e abbandono.

Siamo in otto.
Quest’anno ci hanno già lasciato in due.
Otto abitanti, quasi tutti storici, quasi tutti secolari. Le storie sono o erano legate ad agricoltura di territorio, dove territorio è solo terra, lavoro, chiesa, famiglia.
Qualcuno ha accettato di insegnare il mestiere ad Ale, al suono di corna che si scontrano.
Ale ha dovuto ingoiare il rospone. Per imparare c’era da avere a che fare con anime arcigne, pensieri duri da decifrare, modi difficili, gestioni del territorio incrostate al suolo da secoli. Umanità ottantenne che va giù con un sorso di grappa all’alba, quando passa a prenderti per andare a lavorare.
Qui le teste sono autoctone. Di arenaria cocciuta. Sedimento ed erosione.
Alessandro Cagnasso e Ombretta Mezzi abbassano la media con la loro quarantina.
La castagna era oro lungo tutto l’appennino. Un giacimento generoso a cui attingere da qui fino a Nebrodi e Peloritani. Era pane, nutrimento necessario ogni giorno.
Oggi raccoglierla e lavorarla, neanche a dirlo, ha un costo altissimo.
Solo decidere di farlo dovrebbe far insorgere il dubbio d’insanità mentale.
Hai in mente Don Chisciotte, Alessandro?

Alessandro all’inizio segue orme e consigli dei vecchi del luogo. È difficile perché ognuno ha il suo modo, perché ognuno vuole dire la sua, perché non è facile capirsi appieno, età e storie sono forse troppo distanti. Ma Alessandro è ostinato e vira a dritta. In questa storia, all’inizio, sono coinvolti con lui familiari strettissimi e compagni, insieme si attrezzano per riparare e sanare il tetto di un primo essiccatoio o metato. Si comincia così, col sostegno economico di madre e padre, Paola Chittolini e Patrizio, e quello fisico dei fratelli. È il 2006. E per Ale quell’essiccatoio sarà dimora, letto. Tra quintali di castagne appena raccolte nei tempi di essicazione.
L’architettura è essenziale e funzionale all’uso, le misure sono tutte ragionate.
Un fuoco lento e costante, continuamente alimentato da legno di castagno e da bucce secche. Ogni quattro o cinque ore, per un mese, seccherà le castagne raccolte qui, tra i boschi limitrofi delle valli del Lucido e Aulella e della valle di Vinca. Rossole, carpanesi, puntigliosa, le rosse. Degli oltre sessanta quintali di castagne Alessandro ne farà diciotto di farina.
All’essicazione seguirà la battitura, operazione polverosa, ti riduce come ape impollinata. La battitura serve a pulire il frutto dalla buccia secca e legnosa, precede la selezione, la cernita certosina di ognuna delle castagne essiccate, poi avviene il viaggio verso il mulino, dove avverrà la macinatura, su pietra.

Nel 2006 il prezzo di quel tesoro al chilo è ai minimi, trenta centesimi, c’è chi, piuttosto, preferisce buttarle nel canale. Alessandro e La Bucolika decidono di offrirne quasi il doppio.
Le piccole economie familiari e locali collegate alla raccolta cominciarono a respirare nuova aria, non si trattava solo di rigenerare le proprie tasche ma di riscattare un passato ormai sepolto dall’abbandono coatto, dallo spopolamento verso le fabbriche, dai tempi veloci, dalle frane sulle strade, dalle inondazioni incontrollate. Avvenne così. Quel sapore quasi perduto fece ritorno nelle case e si vede che ne sentiva desiderio, se c’era chi piuttosto di denaro preferiva scambiare il proprio lavoro con questa farina.

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Il contratto è in scadenza. Vendi? A quanto?
Ale, quando può permetterselo, prova ad acquistare piccoli lotti di bosco, un canniccio, un edificio utile alla seccatura.
Poi, quando succede, fa che arrivino giovani, wwoofer, nuovi volti a dar sostegno alla sua truppa di matti e, piano, si comincia a parlare di un turismo diverso, emancipato, coinvolto.
Ovviamente. Ovviamente le cose sono sempre più complesse e drammatiche. Le fatiche sono sempre immani, i muri da scavalcare sempre più alti.
C’era e c’è una miriade di faccende da affrontare, umane e fisiche, c’era e c’è da ripensare a quei boschi, alla disposizione di quegli alberi di castagno in territori abbandonati per moltissimo tempo. Incuria e natura avevano lasciato il passo a piante infestanti, ad agguerrite oppositrici. Con sguardo fermissimo Ale ci guarda e dice andiamo!
Alle spalle indossa uno zaino. Acqua, pennato, motosega, altro che laptop.

Scendiamo oltre il recinto dei cavalli, il fitto del bosco lascia intravedere pezzi di storia di qui. Lunigiana, terra anche di scavatori, lavoratori di cave, di demolitori di pietra, gente con lo scalpello in mano, la schiena curva come una roncola, nelle orecchie il rumore del metallo che batte quel marmo, nelle mani la pietra.
Muretti disfatti emergono tra cespugli, erba alta e alberi, chissà cosa chiudevano.
Il bosco è furore vivo. Lunigiana è territorio ricco, protetto. La connotazione fisico-geologica, le strade anguste, poco percorse e poco percorribili hanno tutelato questa solenne biodiversità dalle brutture moderne. L’assenza ha lasciato mano libera al tempo, nel bene e nel male.
Nel bene. È sotto agli occhi, un patrimonio enorme se crediamo a quello che dicono le api di Ale, tra le arnie.
Nel male. È una sfida continua. Polloni trascurati tolgono energia alle piante. Edera, cerri e frassini prendono il sopravvento, castagni che soffrono le conseguenze di questo attacco antagonista.
È una lotta.
Il cinipide, maledetta vespa, depone le sue uova nei germogli, la lentissima gestazione delle larve danneggia la pianta, mandando in vacca la fruttificazione e l’annata.
Il bosco è fittissimo, qui Ale sta tracciando i suoi sentieri, la sua mappa.
Un tempo si lasciava meno spazio tra un castagno e un altro, quattro metri sembravano bastare. Oggi Ale ne vorrebbe almeno dodici.

Più che nella folle scelta di produrre questa farina, Chisciotte lo ritrovi negli occhi di Ale quando guarda il suo bosco e decide di domarlo.
Il rumore del motosega segue quello del pinnato sul legno.
Giù un frassino se lì serve aria.

Nel corso del pranzo decidiamo di andare insieme a trovare Giorgio Tazzara del Monastero dei Frati Bianchi. La rete di produttori sul territorio non è estesa e spesso deve fermarsi lì dove si incontrano storie di agricoltura fossilizzata tra secoli e chiesa, nepotismi.
Quello che c’è si tiene stretto. L’intesa reciproca è merce rara e le si fa tributo nello scambio, nel rispetto e nel sostenersi reciprocamente.
Ci sono Giorgio Tazzara a Fivizzano, Emanuele Crudeli oltre le montagne, c’è la piccola azienda agricola che produce birre artigianali e vuole questa farina di castagne, reti da custodire e coltivare, relazioni in cui crogiolarsi, tra vini da imbottigliare, raccolte, vendemmie, battiture, scambi.

Arancione, con le tendine.
Ale ci presenta il nuovo mezzo. Un furgone rosso arancione che non diresti. Tendine tutt’intorno. Prendiamo la strada verso il Monastero dei Frati Bianchi. Il Monte dei Bianchi. Non abbiamo molto tempo, la sera Giorgio è protagonista di una degustazione guidata, in un ristorante del territorio.
Oh! Non capita mai. Giusto oggi che arrivate voi.
Giorgio è in cantina. Esce accompagnato da un uomo che ha appena acquistato il suo sfuso. Risa e battute amichevoli. Eh, la dose quotidiana.
La cantina è sulla stradina irta di quest’altra frazione di Fivizzano, Margine. Le vigne dietro appena più in alto. Ha non pochi ulivi ma ha dovuto sottrarre loro attenzione. In vigna è quasi da solo.
Le Apuane svettano davanti al naso. Nuotiamo nella Val di Magra.
Il volto di Giorgio è colorato, rosso di chi si abbronza tra i filari preso da pulizie di vigne e vigneto, polloni, femminelle, erbe infestanti. Taglia e togli.
Il Monastero, quello che ha dato il nome all’azienda, è alle spalle. Porta gloria a San Michele. Antichissimo, eretto da dinastie longobarde prima e passato tra le mani inguantate di nobili, conti, marchesi, ecclesiastici poi. Fu residenza di candidissimi frati.
Il suolo è argilla scistosa e dura alberese. È difficile, dice Giorgio.

Lui arriva alle vigne e al suo vino nel 2004. Prima gestiva un bar, uno di quelli da gesta epiche. Il vino lo produceva per un consumo familiare quotidiano. La sua famiglia aveva un paio di ettari e altrettanti ne prenderà Giorgio in affitto, dalla chiesa, vigne abbandonate da anni.
All’inizio sceglie Merlot e Syrah ma poi coglie dinamicità e doti dei vitigni storici di territorio, Pollera e Barsaglina, che è delicata e quest’anno ha subìto.
Il paesaggio è magnifico, l’edificio che contiene la cantina si spalanca sulla schiera apuana.
Ci sediamo lì, sotto la tettoia, ad assaggiare i suoi vini. Sia Ale che Giorgio sono stati a Roma, al Forte Prenestino, per Enotica e i racconti hanno echi leggendari. Ventiduemila persone.

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Giorgio è raggiunto da moglie e figlie, deve prepararsi.
Noi andiamo. Ombretta cucinerà per noi e lei in cucina è una maga. Ci stregherà.
È occasione per assaggiare l’olio prodotto da Alessandro, buonissimo, torniamo a ragionare con lui sui costi di produzione, per l’olio, per questa farina di castagne.
Eataly vende la sua, biologica, nello store online. Chiede tre euro e ottanta centesimi per chilo. Nei negozi sarà poco più cara.
Altre botteghe virtuali, intangibili, ecologiste o meno, propongono prezzi diversi, quasi tutti ben oltre i dieci euro. Belle confezioni industriali, ermetiche, perfette.
Accendi il computer, accedi alla app, ci vai da Amazon, Ebay, da quel che ti piace, arriva il corriere, il rider, rispondi al citofono o ci pensa il portiere, parcheggi in zona Garibaldi, a Milano. Hai il tuo pacchetto. Bio. La salute è a posto.

Alla luce di quanto abbiamo visto qui, sotto l’appennino, c’è da sprofondare in un oceano di questioni non solo romantiche, mani/faccia di chi ha raccolto, lavorato, cernito, macinato ma anche di ordine pratico. In che stato si trova il territorio che abitano questi piccoli produttori? Come funziona l’accessibilità ai loro luoghi, alle loro strade? Qual è lo stato delle loro abitazioni?
Dove stanno andando le politiche locali, nazionali, dove le economie? Altrove, certo non tra Fivizzano e Fazzano. Milano, Bologna, Roma, Torino, Firenze, New York…
Le città sono corpi obesi, pieni di cibo. Sono stomaci dilatati del corpo Italia e si vuole che tutto arrivi lì tra orifizi e canale pilorico, si vuole che tutto passi attraverso. E tutto lì arriva, è lì che le politiche e le economie vanno a Eataly o su Amazon, tra esofago e duodeno, grandi opere e riqualificazione, lì si capitalizza.
Vi faccio assaggiare una buona rakija? Chiede Ale.

Il silenzio, fuori, sommerge la valle scomposto solo da suoni di fauna. Ettore lo senti il capriolo? Non sembra che stia abbaiando? Chiede Ombretta.
Il giorno a seguire partiamo verso le Terre Apuane di Emanuele Crudeli.

Tra Lunigiana, Garfagnana, Versilia. Tra Toscana, Emilia e Liguria.
Oltre le montagne, dove guardi al Tirreno e se capita vedi la Corsica. Dove per arrivare dai duemila al mare basta un salto.
Sappiamo che la cantina dove vinifica è appartenuta a Mario Soldati e questo incuriosisce moltissimo, ma ancora di più a conquistare è la storia singolare di Manu, originario del Carso, Friuli. Altipiani e mari agli antipodi rispetto a qui.

Prima di scegliere la vigna Emanuele è stato altre cose. Funambolo, giocoliere nel mondo, un’attitudine istrionica che ritorna anche tra filari e cantina. Stare in equilibrio, misurare l’attenzione, trovare un bilanciamento tra se stessi e il territorio.
Per qualche anno ha occasione di lavorare in vigna, operaio per altri produttori, poi, quando i datori di lavoro decidono di mollare il colpo, si trova di fronte al bivio: una sua vigna o altro. Sceglie la terra, con in tasca poco e niente e intorno buone relazioni.
Ci mostra veloce la fatidica cantina in cui lavora.
Ben interrata nella terra scoscesa. Bella, imponente e ragionata ma se c’è una storia soldatiana tra quelle mura il presente Crudele sta prendendo il sopravvento coi suoi modi, i suoi oggetti, le presenze amiche. Musica danzerina, profumo di api e di miele, giocattoli, manifesti da spazi occupati.
Nella cucina attigua ci prepara un risotto con asparagi selvatici colti in vigna.
Manu produce vini assecondando la natura del territorio. Cinque ettari circa.
Candia secco doc, il Biancheforme da vermentino, albarola e malvasia, Vermentino in purezza, Perle Nuvole da vermentino e Vermentino Nero igt Toscana Rosso da vermentino nero e massaretta. Vini che su quelle terre hanno intessuto storie secolari e che Emanuele ha declinato benissimo. Alle vigne arriviamo in auto, l’occasione di usare quei locali per vinificare gli costano qualche minuto di viaggio ma il percorso è occasione di ricognizione sul paesaggio che lo circonda. Paesi, strade, uno sguardo al mare e uno su queste montagne accecanti, sezionate, scavate, erose da cave e ravaneti. L’estrazione del marmo qui ha definito i connotati delle Apuane e di chi le abita nella linea verticale che le attraversa. Fatalmente, ha dato da mangiare e ha mangiato vite. Il bianco dei manufatti dà la misura delle cose come bandierine su una mappa, lapidi agli anarchici, ai cavatori, casse per stagionatura del lardo di Colonnata, vecchi lavabi nelle cucine, organic mutation institute.

Nel verde le fragole.
Le vigne di Manu inneggiano alla apertura e allo scambio. La natura sa esplodere bene e lui ha scelto di non controllarla troppo. Rubiamo fragoline tra i tralci di vite, gli insetti, le lucertole. Troviamo ancora certi asparagetti. Manuele confessa di andarne matto, di mangiarne in continuazione.
Seguiamo Manu tra discorsi e percorsi, il futuro, i progetti, gli investimenti. È fiducioso e lo sguardo brilla come per chi ha le idee chiare.
Andiamo a mare?
Andiamo.
E finiamo in spiaggia a Marina di Carrara. Mutande perché al costume non ci abbiamo pensato.
Questo finire di Aprile è caldo, caldissimo. La spiaggia è piena come fosse estate. Mancano gli ombrelloni per una concessione fiduciosa alla benevolenza del sole. Non brucerà. Il panorama senza lo stuolo di ombrelli è più aperto, le stratificazioni si percepiscono meglio.

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da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 09
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per la lettura di questo e dei prossimi numeri de L’Almanacco potete scrivere a info@laterratrema.org
o cercare la vostra copia in uno di questi nodi di distribuzione autogestititi dai sostenitori.

Last modified: 2 Mar 2023

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