SOLO DOPO SI CAPISCE
di Laura M. Alemagna
Fotografie di Antonello Carbone
Gira in questi mesi, tra sale e festival, l’ultimo film di Daniele de Michele , I MASTRI. Un’occasione per allontanare lo sguardo dalle tavole imbandite e puntare l’obiettivo su tavoli di lavoro e altri arnesi
Ci vuole tempo, tempo lungo, dedicato e ci vogliono dedizione, attenzione profonda, interesse viscerale. È il rimprovero che Tonino ‘o Stocco assesta a Daniele De Michele come benvenuto, in apertura: «Tu, mordi e fuggi». «De Simone ci ha messo vent’anni per fare un disco, ci ha seguito, giorno per giorno», Daniele ammette, i tamburi manufatti di Tonino, costruiti «all’ombra del Vesuvio», li insegue solo da dieci anni, per assemblare – a sua volta – quel ritratto collettivo che ha racchiuso sotto un titolo scarno, tassativo, cubitale: I MASTRI. In questi giorni nelle sale e nei circuiti festivalieri.
Daniele De Michele, Donpasta, abbiamo avuto modo di conoscerlo nel tempo. A La Terra Trema, Fiera Feroce al Leoncavallo, il cinema Mexico di Antonio Sancassani, le pagine de L’Almanacco, le presentazioni in libreria, le occasioni di confronto e stimolo reciproco, su cinema e libri: “Pop Palestine” (di Silvia Chiarantini e Fidaa Abuhamdiya), “Tabula Rasa” (di Davide Di Gandolfo), “Attorno a una ricetta” (di Giorgia Brianzoli). Conosciamo i suoi guizzi e, un poco, pure le sue inquietudini; sappiamo di trame interiori che lo portano a mettersi in gioco.

UN FILM DI RICERCA
I MASTRI è un film di circa sessanta minuti. Lo abbiamo visto comporre nell’arco di questo decennio, dall’atto di ricerca dei tasselli alla disposizione compiuta in mosaico. Qualcuno dei protagonisti è capitato anche di conoscerlo, a Eufemia, mercato agricolo de La Terra Trema dei tempi del Covid19.
Accantonate (momentaneamente) le ricette, le leccornie familiari, Daniele ha voluto assecondare una curiosità che andava altrove, altrove dai fornelli di nonne, dalle mani infarinate, un altrove rassomigliante ma fuori le case, le cucine, i grembiuli materni. Ha bussato, dunque, ai mastri, ai maestri, ai laboratori, alle officine, ai cantieri, a un altrove rumoroso, cumulo di fatiche e di polvere. Cercando un’occasione per raccontare di modi di produzione novecenteschi, di manualità elevata, di intelligenze creative, di radici storiche e storicizzate di oggetti manufatti in un’epoca di processi iper-digitalizzati, di produzioni industriali su ampissima scala, di cose da replicare all’infinito, da ordinare e ricevere da un continente a un altro, di merce e lavoro svenduti, svalutati, sviliti.
Toccando corde a lui già note ma muovendosi su un terreno diverso, Daniele De Michele ha raccolto volti, gesti, voci perdibili, sapere quasi estinto, la memoria di un presente (bada, non di un passato), sempre più rarefatto. Con interesse di ncrucchiaviddichi, come Elsa Guggino, antropologa e palermitana, diceva di sé, come di chi annoda ombelichi e parla, di chi attaccabottone e parla, accompagnando il filo all’avorio, la lama alla carne.
COSA SERIA E DA PRENDERE SUL SERIO
I MASTRI segue sette storie, sette strade maestre: la liutaia Clara Contadini che crea violini nel centro di Napoli; il muranero Moulaye Niang a Murano (VE); Luca Casaril, maestro d’ascia a Venezia; Antonio (Tonino ‘o Stocco) e Raffaela Esposito capiscuola nella costruzione dei tamburi napoletani a Mariglianella (NA): Stefano e Mario Simoncini fratelli alabastrai a Volterra (PI); Maurizio Camilletti e Rosella Reali e le loro teglie di argilla a Montetiffi di Sogliano al Rubicone (FC); i costruttori della Focara di Novoli (LE), babelica torre contadina, fatta di tralci e fascine e arsa nel giorno di Sant’Antonio Abate. Non è difficile fare di queste narrazioni occasione di analisi più ampia, di osservarle per allargare lo sguardo, ulteriormente. Sono «cosa seria e da prendere sul serio», mestiere folle, crogiuolo utopico, rituale, canto e agire magico, atto politico, via di salvezza, condanna e prigione, resistenza, preghiera e scongiuro, piacere e sacrificio.
È, sì, molte cose il lavoro dei mastri, donne e uomini acciuffati da Daniele De Michele così come lo è anche quello di chi persevera così, allo stesso modo, con lo stesso spirito nel presente, sia esso/a agricoltore/trice, militante, poeta, studiosa/o e via dicendo.
In tempi di tecno-scienze, di capitalismo digitale, d’intelligenze artificiali, di neuro-tecnologie, di algoritmi, di BigDog (quelli di Boston Dynamics) e di protocloni (quelli di Clone Robotics), di ChatGPT e OpenAI, il lavoro contenuto, quantificabile intorno alle possibilità della vita umana e non a misure incomputabili di macchina, si vorrebbe ricondurlo ad affare arcaico, al massimo folklorico, a vicenda di tradizione, costume romantico anacronistico. E, invece, quello che la favola produttivista contemporanea sembra considerare così poco e male, è una questione cruciale: la consapevolezza intima e profonda di ogni pratica di conoscenza della materia e del fare è fondante. E il godere del e nel saper fare è impagabile e irriproducibile, meccanicamente.

«QUESTA TERRA PARLA»
Maurizio Camilletti e Rosella Reali, tegliai a Montefitti, hanno raccolto, alcune decine anni addietro, l’eredità di Pierino Piscaglia, ultimo tra i produttori di teglie per scaldare la piada.
La teglia, la tègia, al tegi, al teg, non è un oggetto irrisorio al confronto col mondo contemporaneo.
La teglia è un condensarsi di conoscenza, di possibilità, di piacere e di sentire umano. Per questo non è «mai pronta», chi di noi lo è?
L’argilla è terra, raccolta a mano, in luoghi conosciuti, camminati, studiati, annusati. È ripulita da quanto è riconducibile a scoria, è setacciata, composta, lavorata, trasformata. È messa a sedimentare, le viene dato il tempo di evolvere, di diventare materia prima finissima.
Le mani, abituate, istruite, riconoscono le sue fasi, gli umori, le derive. Le mani sanno dove intervenire, come comporre. La teglia vuole gesto gentile, lento, rispettoso, vuole il tralcio di vite per cuocere, vuole il crepitio del fuoco, vuole l’aria, il sonno, il riposo, la quiete.
Parla la terra per la teglia, parla l’alabastro a Stefano e Mario, “raccolto” a picconate, è pietra che «ha fatto ridere e ha fatto piangere».
Parla il tamburo di Antonio Esposito; parlano l’acacia, il legno di limone siciliano, l’ulivo salentino, il frassino irpino, noce e castagno, parla il faggio che usa per i suoi strumenti. Parla la pelle di capra lavorata, essiccata a fuoco, tirata coi chiodi. Parlano i cimbali di metallo tintinnante. Parlano il violino di Clara Contadini e il vetro a Moulaye Niang. E sono dialoghi innescati, in movimento, in crescendo. Non si chiudono se il violino è finito, se la teglia è cotta, da lì in poi cambiano, crescono. Lasciano acerbezza per maturità.
Se c’è un’esortazione a guardare e ascoltare questi mastri non è esortazione promozionale, non si dice «comprate questi». Si dice altro, si dice piuttosto di un invito a riflettere sulla capacità di uomini e donne di fare da sé, del saper costruire, assemblare, riprendere in mano gli attrezzi, non per passatempo ma per sopravvivenza a questa apocalisse delle competenze materiali, della fine delle intelligenze sociali per quelle artificiali. Si dice non del lusso di poter comprare, ma del lusso del poter progettare, fare, costruire, assemblare, un creare che è spiritualmente contrapposto alla meccanicizzazione.
Il lavoro delle mani, delle spalle, del corpo tutto fa da contrappunto a qualcosa che sempre di più prende piede, che sostituisce con la digitalizzazione (l’atto del digitare) la manualità. Dita su tasti e tastiere, invece che mani e presa, connessioni invece che relazioni. Maker invece che mastri.

Nel film, il dialogo con i mastri si avviluppa tra volti e materia, tra elementi della natura, tra mani e sostanza, suono e pensiero, pelle, cartilagine, pelo, metallo, pietra, sudore. Attraversa e accomuna le storie. Il tralcio di vite per le fascine nel corpo legnoso della Focaia; il tralcio di vite per cuocere le teglie, per cuocerle piano; il legno disegnato dallo scalpello; la pietra forgiata al tornio; la pasta vitrea soffiata a fuoco vivo; gli aliti, le voci, i sospiri, il canto.
Nella vita dei mastri gli elementi si mischiano e strabordano, la polvere di alabastro è strato di pelle e vesti, è impronta e balla nel lavoro con Stefano, quando canta (Mario è mancato nel corso della lavorazione del film); l’argilla utilizzata per la produzione delle tègie è materia viva con cui comunicare, il legno per i violini chiede silenzio a volte. Nella vita dei mastri, la materia prima è tracciabile, riconducibile a una scelta, tutti sanno dove andare a prenderla, sanno a chi rivolgersi, sia essa persona o valle. Non è azione predatoria. È una materia di relazione, di scambio, di confronto e scoperta. Materia che apre a legami.
Ovvio che tutto questo non ha motivo d’essere per le grandi città turistificate, che non hanno spazio per questi luoghi e i loro mastri. Le grandi città turistificate vogliono ninnoli, souvenir, pizzetterie, spritzetterie, friggitorie, ristorantini, affittacamere, B&B, smart lock per airbnb.
A Napoli, gli affitti degli immobili sono impraticabili per chi lavora come Clara.
Così anche a Venezia: le case, vendute o affittate a prezzi improponibili, sono costruite in ogni dove. I cambi di destinazione d’uso (ne sappiamo qualcosa a Milano) trasformano laboriose scuole in più proficui condomini. Non stupisce che la rumorosa, polverosa, vivace bottega di Luca Casaril, maestro d’ascia, diventi motivo di un brontolare inquilino lamentoso e monocorde. Dalle finestre dei condomini sul piccolo cantiere, quei lamenti sono spari cecchini su un lavoro serio, secolare, che ha fatto la fortuna di città come Venezia.

SOLO DOPO SI CAPISCE
Se cultura materiale è cultura davvero, mastri e mastre sono tra gli intellettuali organici che la praticano? Rivolgendosi a chi? Di chi saranno maestri? Serve capirlo, serve arrivarci, dirselo.
Ci vuole tempo, tempo lungo, dedicato e ci vogliono dedizione, attenzione profonda, interesse viscerale. A Daniele De Michele va dato atto di perseverante cocciutaggine nel seguitare a farsi testimone di questi atti di maestria, nel trascrivere, in parole e in immagini con solerzia.
In Italia i precedenti sono straordinari, veri e propri atti di devozione verso il proprio presente e nei confronti del futuro a venire.
«Viene rimproverato a chi si occupa della documentazione, dello studio, della conservazione e della valorizzazione delle tradizioni popolari di ripiegarsi sul passato, vanamente, alla ricerca di valori, di cose, di persone dalle quali nulla può derivare se non un nostalgico e inerziale atteggiamento di rinunzia ad affrontare i problemi del presente e le sfide del futuro, prima tra tutte quella dello sviluppo, della crescita sociale ed economica. È il rimprovero cieco di coloro che si rifiutano di osservare la complessa varietà degli uomini, di riflettere sul fatto che essi sono la loro storia e le loro opere, tangibili e intangibili, cioè la cultura. (…) Assumere la memoria culturale come patrimonio e considerare la tradizione come risorsa irrinunciabile, è l’atteggiamento più utile per affrontare, capire e risolvere i dilemmi e le crisi del presente». Lo diceva Ignazio E. Buttitta (Un frammento di storia, in Folkstudio – Catalogo delle raccolte 1966-70). Molto prima, Giuseppe Pitrè raccolse e studiò usi e abitudini popolari dei suoi tempi, negli anni che chiudevano il XIX secolo. Partì dal cuore. Medico curante non fece fatica a collezionare cantilene e canti, proverbi, giochi di cortile, mestieri, costumi, pratiche medicali, riti, indovinelli e fiabe, ogni volta che andava in visita da una massaia, un marinaio, un contadino. Dal 1870 al 1913, il tesoro raccolto confluì in un’opera ancora oggi fondamentale: la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, composta da venticinque volumi e una marea di informazioni raccolte e minuziosamente trascritte dopo dialoghi, incontri, chiacchierate, assidue frequentazioni. Un patrimonio culturale e linguistico enorme. «Bottino ingente» disse Italo Calvino, quando se lo trovò davanti, per grazia di Cocchiara, nel Fondo a Pitrè intitolato.
Grosso modo negli stessi anni, tra il 1891 e il 1911, su altre latitudini, Pellegrino Artusi diede vita, di propria tasca, alla sua raccolta gastronomica: “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. In settecentonovanta ricette mise nero su bianco un patrimonio ancora illetterato, solo detto e mai trascritto.
Fu altresì spartiacque. Quel corposo ricettario nazionale, fu trascritto e scientificamente cucinato (con lui da Francesco Ruffilli e Marietta Sabatini).
Serve riflettere sui propri patrimoni quando sono vivi, quando ancora possono indicare una rotta, prima che diventino macerie o reliquia.
«Solo dopo si capisce», dice il padre di Maurizio Camilletti al figlio in punto di morte. Che in tanti anni mai aveva capito quel lasciare il lavoro sicuro da impiegato per iniziare un mestiere tanto strano. Un mistero avvolge questa comunità di donne e questi uomini che si riunisce per issare anno dopo anno, immense cattedrali da dare alle vampe. Focaie di animi, animi in fuoco, ardere e vivere, come sempre, «solo dopo si capisce».

Hanno fatto
I MASTRI
Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Daniele De Michele
Fotografia: Mario Bucci
Aiuto Regia: Antonello Carbone
Montaggio: Paolo Turla
Color Correction: Simona Infante
Montaggio del suono e Mix: Marco Saitta
Una produzione: Colibrì Film e Audioimage
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 36
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org
Last modified: 2 Giu 2025