Agricoltore, a modo mio
Di Mary Taylor Simeti
Illustrazioni da Kai Salo


Mary arriva in Sicilia nel 1962, con in tasca una laurea al Radcliffe College. Si propone come volontaria al centro di sviluppo comunitario gestito da Danilo Dolci. La Sicilia che conosce in quel luogo è disgraziata, sprofondata tra miseria e abbandono. Una spietata traversata nel deserto con cui fare i conti. In quei mesi di formazione Mary conosce Tonino Simeti, a quei tempi insegnante di Estimo all’Università di Agraria a Palermo. La morte del fratello maggiore di Tonino impone a entrambe l’approdo a Bosco Falconeria, azienda di proprietà della famiglia di Tonino dagli anni Trenta e nugolo operoso e vitale per il territorio.

Nata e cresciuta a Manhattan, inverni in città e vacanze estive al mare, dell’agricoltura conoscevo solo lo stand di un agricoltore locale, al bordo della strada, dove d’estate compravamo pannocchie dolcissime di granturco, raccolte mentre aspettavamo e portate a casa di corsa per lessarle prima che lo zucchero si convertisse in amido. Non pensavo lontanamente, quando alla fine dell’università mi sono trasferita in Sicilia per lavorare qualche anno come volontaria nel centro di sviluppo comunitario fondato da Danilo Dolci, che ci sarei rimasta per più di sessant’anni, diventando moglie e poi madre di agricoltori. Non potevo immaginare che un giorno avrei portato i semi di quel granturco dolce dall’America, che mi sarei ricordata di mettere il pentolone sul fuoco prima di scendere nell’orto per raccoglierne le pannocchie.

Nulla sapevo della particolare mentalità dell’agricoltore, quella mistura contraddittoria di ottimismo, indispensabile per chi pensa di affidare il suo futuro ad un seme, una cosa minuscola infilata nella terra, accompagnato da un pessimismo apocalittico: temperature troppo estreme, acqua insufficiente oppure troppo abbondante, tempismo sbagliato, di sicuro la raccolta sarà un disastro.

Ho imparato. Ho imparato che le fosche previsioni di mio marito erano spesso più scaramantiche che scientifiche, ma anche che non sempre il seme germoglia. Ho imparato a raccogliere l’uva e le olive, ho imparato come si fa il vino e come funziona un frantoio, come conservare le olive, sia verdi sia nere, e a imbottigliare grandi quantità di salsa di pomodoro per l’inverno. Ho imparato ad apprezzare sistemi di coltura sviluppati nei secoli per vincere le sfide della dura estate siciliana, come la novara in cui le piante crescendo a metri l’una dall’altra e irrigate solo al momento del trapianto, riescono a dare pomodori e meloni e angurie succosissimi. E sono stata fiera di tutte queste mie conquiste. 

Nel 1982, durante una visita negli Stati Uniti, ho scoperto l’agricoltura biologica. Al mio ritorno in Sicilia il mio entusiasmo si è scontrato con il pessimismo di mio marito, in questo caso più scientifico che scaramantico: non funzionerebbe mai nel clima siciliano. Ci sono voluti due tesi, una sulla biologica e una sulla biodinamica, scritte da studenti che lui seguiva all’università, a svegliare la sua curiosità. Man mano ci siamo convertiti, persuasi soprattutto perché stanchi di respirare gli odori malefici dei pesticidi e dei concimi chimici, inorriditi dall’aspetto desolante dei campi falciati dagli erbicidi che cominciavano allora a diffondersi in Sicilia, perseverando malgrado le battute dei suoi colleghi universitari e il divertimento dei vicini, fino ad ottenere la certificazione biologica per tutta l’azienda nel 1991, non appena fosse approvata la necessaria legislazione.

Ho imparato per osmosi, quasi senza accorgermi, finché non fui invitata ad accompagnare un gruppo di turisti americani in giro per l’isola. Mentre la guida ufficiale parlava di colonnate e tessere, io parlavo dei campi, di ciò che ci cresceva, di come si raccoglieva, con quali riti e quale destino. E’ stata una piacevole sorpresa scoprire quanto mi ero già addentrata nel mondo agricolo della mia isola adottiva, e ancora di più scoprire quanto interessassero ai miei ascoltatori le cose che raccontavo, cose che non fanno parte delle guide standard.

Cominciò a prendere forma nella mia mente il libro che avevo sempre pensato di scrivere sulla Sicilia, non qualcosa di comprensivo e definitivo che prima mi era sembrata l’unica ma alquanto impossibile strada, ma qualcosa di mio. “Un libro dei mesi” lo chiamavo fra me e me, come quelli miniati –bellissimi – del medioevo, che seguivano l’anno con tutte le feste, i lavori, le raccolte. Una specie di calendario, perché era questo in fondo che mi intrigava di più della Sicilia, il calendario dell’uomo nella natura. Non quello scolastico che aveva dominato i miei anni d’infanzia e di studente, con la semplice alternanza fra estate a mare e inverni in classe, ma quello che è nato assieme al clima mediterraneo, e quindi dettando il tempo della semina e quello della raccolta, aggiungendo poi le feste per propiziare e ringraziare gli dei che sovrintendevano questi momenti vitali, antichi dèi che a opera della chiesa divennero santi cristiani da onorare, ma sempre con riti, decori, processioni e piatti comandati che erano cambiati pochissimo nel corso dei due millenni che separavano la Sicilia che ho incontrato venendo qui da quella dei popoli della Magna Grecia.

Quando i figli presero la maturità e andarono fuori a studiare, con mio marito abbiamo deciso di abbandonare la città per andare a vivere a pieno tempo in azienda. Non più costretti a conciliare il calendario scolastico con quello agricolo, eravamo liberi di cullarci quasi completamente nei ritmi rupestri, o almeno così pensavamo. La vita rurale non è meno soggetta a sorprese sgradite e inopportune – la botte che perde, il gasolio che finisce, il trattore che non si mette in moto – e ce ne sono state parecchie, ma sempre di più mi sono sentita connessa a tradizioni millenarie (cosa insolita per un’americana), sempre di più c’era il piacere della ricerca storica che si innestava sul lavoro quotidiano. Ogni ottobre, mentre piego i rametti di finocchio selvatico in una specie di rete per tenere sommerse le olive verdi nella loro salamoia – trucco che ho imparato da mia suocera – rivisito tutt’ora il brivido di quando lessi che Columella, scrittore romano del primo secolo, nel suo De re rustica c’era arrivato prima.

Nel 2012 mi si chiese di fare una conferenza sull’agricoltura organica al Connecticut College negli Stati Uniti. I miei ascoltatori erano studenti di antropologia, con in più un gruppo di giovani agricoltori della zona. Il titolo della conferenza era “Come l’agricoltura biologica mi ha allargato la mente”; in verità è stata la preparazione di quella conferenza che ha messo ordine nella mia mente, facendomi capire come tutte le nozioni accumulate qua e là in quasi quarant’anni passati in azienda, fra articoli letti, discorsi ascoltati, nei campi o nelle biblioteche, davanti alla televisione o sull’internet, si fossero infiltrate nella mia mente come gocce nell’acqua, increspando e allargando le mie curiosità. 

Non era più soltanto una questione di come meglio coltivare i nostri terreni per starci meglio: si trattava di capire come le nostre scelte erano legate a quelle di agricoltori ovunque, a scelte fatte da piccoli peasant farmers o imposte dai giganti dell’agricoltura industriale. Avevo scoperto l’agricoltura sostenibile e l’agricoltura rigenerativa, La Via Campesina, il fenomeno del land grabbing, e il concetto di food sovereignty.  Soprattutto ero diventata conscia del dialogo nefasto fra agricoltura convenzionale e cambiamenti climatici. Se mi divertiva ancora leggere nel regime fondiario della Sicilia odierna la storia dei suoi conquistatori, i grandi latifondi dell’interno creati dai romani, o i piccoli poderi recintati da pietra secca dell’altipiano ibleo dati in affitto dai grandi di Spagna, non mi bastava più Columella, mi incuriosivano anche Rachel Carson, James Lovelock e Alex Podolinsky. 

Con l’inizio del nuovo millennio sono cominciate le perplessità: sembrava che nessuno dei nostri figli avesse voglia di portare avanti l’azienda: Francesco era imbarcato in una carriera d’artista a New York, mentre Natalia stava studiando museologia ad Amsterdam. La nostra cantina camminava su macchinari obsoleti, pareti scrostate, e le entrate ed energie calanti di due sessantenni, per nulla all’altezza dei dettami dell’Unione Europea. Se la decisione di affidare la nostra uva ad una piccola cantina biologica nelle vicinanze invece di vinificare in azienda non è stata troppo difficile, la prospettiva di invecchiare da soli in un baglio isolato e sproporzionato risultò più problematica. L’idea del downsizing, del rimpicciolire il ménage, così popolare fra i miei anziani compatrioti americani, non si prestava alla nostra situazione, né potevo immaginare vivere altrove: ormai la mia identità sicula-americana era radicata nel suolo di Bosco. 

Tutto si risolse come per miracolo: Natalia decise di abbandonare la conservazione dei beni culturali a favore dei beni della terra, e di portare avanti per un’altra generazione l’azienda creata dal suo bisnonno quasi un secolo prima. Sembrava tutto a posto, avremmo potuto continuare ad invecchiare tranquillamente a Bosco, sapendo che la catena era ancora salda, che il calendario delle stagioni sarebbe stato ripercorso ogni anno, che le uve e le olive sarebbero maturate ogni autunno, anche dopo che noi non saremmo stati più.

E adesso? Dopo un’estate di temperature molto elevate e siccità prolungata (la seconda estate così di fila), dopo aver irrigato con grande parsimonia i frutteti, quando il nostro unico pozzo lo permetteva, solo per raccogliere copiosi mandarini e avocado troppo piccoli per poterli commercializzare, dopo aver visto le pale del fico d’India davanti casa, pianta iconica della siccità siciliana, ripiegate su loro stesse come le orecchie di un segugio, come ritrovare l’ottimismo di chi semina e quasi sempre raccoglie? Bisogna cambiare vocaboli. I venti arrivano con una forza sovrannaturale, rompendo rami e spandendo fiamme, un arrivo che mal si esprimerebbe con il verbo “soffiare”, la pioggia qualora arrivasse, più che cadente sembra sparata contro un suolo pietrificato e inospitale.

Il pessimismo non può più essere solo scaramantico: troppi fattori ci ne concorrono, troppi indietreggiamenti e nostalgie sulla scena globale lasciano poco spazio all’ottimismo, a quella mistura intrecciata che mi sembrava così divertente all’inizio della mia carriera agricola. Troppe conquiste date per scontate vengono travolte da eventi politici e climatici.  

Eppure dopo un’estate feroce, che piegava anche il fico d’India, e un periodo natalizio insolitamente freddo e piovoso, per Capodanno è fiorito il primo narciso nel mio giardino. Due icone botaniche per due stati d’animo: cercherò di tenerli vicini entrambi, e di resistere.

Mary Taylor Simeti


Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 36
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 5 Giu 2025

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