di Claudio Risitiano, vignaiolo a Le Furie

Le sorti dei luoghi. Toccherebbe che a definirle fosse chi li vive, chi li conosce a fondo, per averli abitati, attraversati, camminati. E invece – sempre – calano dall’alto visioni di territorio e di sviluppo oscene, obsolete, ottuse, e arrivano a decidere sugli e sulle abitanti, in nome di speculazioni scellerate, in nome di chi devasta, genera scempio, deserto, odioso profitto individuale. I cittadini e le cittadine dello Stretto sanno che il territorio che abitano ha bisogno di altro genere di ponti; che è urgente fare fronte al degrado opprimente, al gravissimo dissesto idrogeologico, sanno che è indifferibile risanare strade troppo vecchie e fatiscenti e un sistema ferroviario inefficace. Sanno che occorre dare forza agli avamposti di relazione, socialità e cultura.


Il Ponte sullo Stretto lo si può guardare come un prisma: leggendo le carte dei progetti che ne prevedono la realizzazione, pur non potendo mettere a tacere i dubbi di fondo sulla sua effettiva realizzabilità, si può ottenere tanto un efficace riepilogo della questione meridionale quanto la cartografia sintetica di una specifica visione del mondo per la quale tutto – dalle nostre vite a ciò che giace nel sottosuolo – è “risorsa” da cui trarre profitto.

Non è con i tecnicismi che se ne esce, ma proviamo a vedere di che si tratta. Grazie a un imponente investimento di quattordici miliardi, torri di quattrocento metri sulla sponda siciliana e calabrese dovrebbero reggere un ponte a campata unica lungo tremila e trecento metri: si prevede dunque che si proceda allo scavo di decine di chilometri di gallerie e a una produzione di acciaio e calcestruzzo tanto economicamente remunerativa, per le imprese che vinceranno gli appalti, quanto ecologicamente insostenibile, essendo l’industria del cemento nella produzione planetaria la principale responsabile di emissioni di anidride carbonica (con buona pace del Ministro dei Trasporti che la definisce orwellianamente un’opera “green”).

«Ogni volta la desertificazione comincia con l’esproprio di ciò che è comune. La violenza dell’accumulazione primitiva non sta solo alle origini del capitalismo, ma è condizione di possibilità di ciò che chiamiamo “progresso”. Perché si crei nuovo plusvalore, essa deve incessantemente applicarsi e trovare nuovi commons da recintare e sfruttare, che siano campi, miniere, mari, corpi, conoscenze, comportamenti, affetti, legami»1.

In questo caso, l’alta sismicità dell’area dello Stretto e i forti venti che la attraversano hanno fatto sollevare da più parti delle obiezioni di natura tecnica difficilmente aggirabili, se non con la scommessa, assicurata però dai soldi della collettività, che nell’arco dei prossimi otto anni vengano messi a punto quei materiali necessari a garantirne tenuta e stabilità e di cui sin qui persino diversi tecnici inizialmente favorevoli al ponte constatano la mancanza.

La pessima condizione delle reti ferroviarie e autostradali in Calabria e Sicilia fa pensare a una macabra beffa ogni volta che un governo e dei comitati d’affari si affannano a mostrarsi animati dal desiderio di migliorare, tramite la costruzione del ponte, la condizione complessiva dei trasporti nelle due regioni; così come l’apertura di cantieri enormi all’interno di quartieri densamente abitati, il cui avvio sconvolgerebbe l’esistenza di migliaia di persone facendo strame dello “spirito“ dei luoghi, può ben spiegare perché non è un innalzamento del piacere di vivere per gli abitanti dello Stretto il movente di questa operazione politica, economica e mediatica.

Se poi si pensa che in studi di fattibilità, cooptazioni nel mondo delle professioni e distribuzione di prebende sono già stati sperperati fin qui cinquecento milioni di fondi pubblici, si capisce che più che sul manufatto in sé la lobby sì-ponte – al cui interno convivono istanze privatistiche predatorie ed interessi politici in “simbiosi mutualistica”, per usare volutamente l’espressione con cui Riccardo D’Este definiva il rapporto tra stato e mafia – punti tutto su un modello di governo dei territori che orientando i flussi di finanziamento riesca a blindare relazioni sociali oppressive per i più e vantaggiose per i padroni del vapore. Funziona così da un bel po’, e ne abbiamo avuto in dono a queste latitudini – oltre a basi Nato, carceri e lager per migranti – raffinerie, discariche e inceneritori: «Non ci possiamo fidare pure perché lo sappiamo già a cosa porta il sistema riproduttivo tecnocapitalista, di cui Salvini e il governo Meloni sono solo una delle peggiori incarnazioni: porta ai loro mega impianti industriali, a Messina, in particolare Milazzo, trasformata in un sito di interesse nazionale per i livelli senza pari di inquinamento. Cresciuta tra petrolio e amianto, […] in terre inghiottite da termovalorizzatori e rifiuti tossici, mi chiedo se devo trovare una statistica ufficiale che attesti che il cancro all’utero e i vari al seno di mia madre e di tutte le altre madri/zie/sorelle/madrine/cugine/amichediamiche, siano collegati all’inquinamento seguito all’industrializzazione criminale del sud Italia»2.

Vedendo liquefarsi sotto l’urto di queste verità innegabili il cerone della propaganda, si può vedere franare un intero edificio tirato su col cemento impoverito delle parole pronunciate o messe per iscritto senza alcun pudore nel corso dei decenni da ministri, uomini d’affari e giornalisti lacchè: e sarebbe pure una bella notizia, lo smascheramento di lorsignori, se non si accompagnasse alla tragedia di veder franare materialmente territori fragilissimi, in cui ogni estate prendono fuoco migliaia di ettari di bosco e la siccità avanza aggravando quel dissesto idrogeologico più volte rivelatosi letale. Da Craxi a Berlusconi, da Rutelli a Renzi, i proclami nell’imminenza dell’avvio dei lavori non si contano sulle dita di due mani. Oggi è il turno di Salvini, che ha richiamato Pietro Ciucci come amministratore delegato della Stretto di Messina Spa (lo stesso manager che ne era a capo quando nel 2012 venne smantellata, e che nel frattempo aveva fornito le sue prestazioni lautamente retribuite all’ANAS). La mia idea è che questa volta ci proveranno, ad avviare i lavori, per mostrare di fare sul serio e legittimare l’impegno economico del governo e la rimessa in piedi di tutto il baraccone smantellato una decina d’anni fa. Ma certo non pensando davvero di portarli a termine.   

«A forza di mentire su tutto, il tutto fatto menzogna sta perdendo ogni forza. I segni sono sprofondati in noi, segregati sotto il coperchio tombale che l’organizzazione dell’apparenza stende sulla vita negata dei corpi, murati vivi. Ma affiorano, esplosivamente, scaturendo dal cemento che si crepa»3.

Volgendo lo sguardo altrove, infatti, in direzione di chi ha opposto, oppone e opporrà una netta contrarietà alla definitiva devastazione dei luoghi in cui vive, riparati dall’ombra di un No intransigente e fondativo, si possono scorgere diversi germogli di esperienze simultaneamente singolari e comuni, il cui tragitto per arrivare vivi, e talvolta persino miracolosamente vigorosi, a questo inverno necessiterà nei prossimi mesi di moltissima cura e attenzione per non subire battute d’arresto quando si tratterà di intralciare materialmente l’apertura dei cantieri.

«Da bimba (mia madre di cognome fa Cariddi) mi dicevo contro il ponte di pancia, con la passione di un corpo che semplicemente non desidera ostacoli tra sé e l’acqua. Oggi sono ancora quella bimba che anela a divenir cetacea e perdersi tra i flussi, ma in più ho scoperto che la passione di allora è una validissima ragione scientifica: i ventri dell’evoluzione sono umidi e salati, e noi mammifere non abbiamo fatto altro che uscire e rientrare in acqua per divenire quel che siamo. […] Il mio no al ponte sullo stretto è un no al sistema riproduttivo tutto, di cui il ponte in Sicilia, come la Tav in Val Susa, costituiscono gli estremi. Non voglio dibattere sulla logistica, sulla fattibilità e la tenuta. Può venire la governance tecnoscientifica mondiale a validare, noi comunque non ci possiamo fidare»4.

No, non possiamo: e nel revocare fiducia e delega a chi governa su tutti in nome degli interessi di pochi, possiamo attingere a una competenza per dolore che nessun tecnocrate potrà mettere in discussione.

E avere come bussola la consapevolezza, più volte sperimentata, che il dolore può farsi coscienza, e la coscienza coraggio di agire in prima persona, in accordo con la propria sensibilità. Le migliaia di persone che sono scese in strada, negli scorsi mesi con una determinazione non inferiore a quella dimostrata per spasmi nel corso di due decenni, sono un’indicazione luminosa che non tutto è perduto.

«Non è solo la violenza del dominio a produrre tracce durevoli nelle cose. Qualsiasi forma di intensità collettiva lascia segni: intensità di lotta, di affetti, di conoscenza, di amore»5.

«Per completare e garantire l’impresa di appropriazione, il mondo del plusvalore deve presentarsi a chi lo abita come l’intero dell’esistente e del possibile: non solo come il più potente e desiderabile dei mondi già esistenti, ma come il solo mondo immaginabile. Non basta quindi eliminare l’alterità che già esiste, bisogna anche bloccare il motore che la produce e che – generando biforcazioni, desideri, intuizioni, resistenze – porta i viventi a sperimentare nuovi modi di relazione, a co-divenire, a radicarsi nella loro storia singolare e nei loro luoghi propri: a produrre molteplicità, insomma»6.

Solo il molteplice può fronteggiare l’avanzata del totalitarismo estrattivista: nell’arco della rivolta contro di esso, l’auspicio che mi sento di esprimere è che mille frecce scocchino. Dal basso, per chi si autorganizza, occorrerà “solo” fare attenzione a quelle avvelenate di una solidarietà che dura il tempo di una campagna elettorale (come nel caso di quella recentemente esibita fin sotto il palco dell’ultimo corteo da PD e M5S, il cui supporto al TAV in val Susa, al Muos di Niscemi, al riarmo dell’Europa e al genocidio in corso a Gaza non devono essere opportunisticamente dimenticati). E poi intrecciare pratiche e saperi, intensificare gli incontri con gli altri movimenti di lotta territoriale, imparare a fare festa, protendersi al conflitto con la più intensa apertura di cuore. Se scrivo queste parole, è alla ricerca di una complicità di ogni sorta da parte di chiunque senta risuonare nel proprio vissuto motivi abbastanza profondi per unirsi alla battaglia dei cavernicoli dello Stretto.

«In un villaggio, due fratelli avevano la mania di riporre in un sacco delle pietre bianche o delle pietre nere per segnare, alla fine della giornata, l’uno i momenti di felicità, l’altro i momenti di dolore.
Benché conducessero vite assai simili, il sacco di uno si riempiva solo di pietre bianche, quello dell’altro solo di pietre nere. Incuriositi, interrogarono al riguardo un uomo noto per la saggezza delle sue parole, la cui risposta fu “Voi non vi parlate abbastanza, ciascuno motivi all’altro le ragioni della propria scelta”.
Poiché, anche in tal modo, il mistero pur definendosi più precisamente si manteneva tale, i due fratelli posero all’intero villaggio la domanda posta loro dal saggio: “Perché il gioco delle pietre ci appassiona tanto?” e l’intero villaggio, meno i notabili e i capi, vi si era appassionato, tanto da trascurare ogni altra attività.
Pochi giorni più avanti, al termine di una notte agitata, la gioia regnava nel villaggio e il sole illuminava le teste tagliate e fissate alle palizzate: le teste dei notabili e dei capi»
7.

  1. Stefania Consigliere, Materialismo magico. Sensibile e rivoluzione, Derive approdi, 2023 ↩︎
  2. Angela Balzano, Compost da (a)mare, pubblicato su www.parresiacultura.it ↩︎
  3. Giorgio Cesarano, Manuale di sopravvivenza, Edizioni Dedalo, 1974 ↩︎
  4. Angela Balzano, op. cit. ↩︎
  5. Stefania Consigliere, Verso un’ecologia dei fantasmi, su operavivamagazine.org/verso-unecologia-dei-fantasmi/ ↩︎
  6. Stefania Consigliere, Materialismo magico, op. cit. ↩︎
  7. Raoul Vaneigem, Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, Golena, 1999 ↩︎


Le Furie, Castanea delle Furie, è avamposto vinicolo sullo Stretto di Messina, partecipa a La Terra Trema dal 2022


Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 31
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 19 Feb 2024

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