In questo mondo fugace come un sogno viver nell’affanno è follia

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IN QUESTO MONDO FUGACE COME UN SOGNO VIVER NELL’AFFANNO È FOLLIA
Il senso di parole/azioni come rivolta, violenza, oppressione non è mai neutro. Una riflessione a margine delle giornate di Amburgo
Testo e immagini di Mattia Pellegrini

Dato che da qualche parte bisogna iniziare, cominciamo dal principio. 
C’era una volta l’incontro ad Amburgo tra le venti nazioni più potenti, atroci, del pianeta. Per incontrarsi si erano fatti accompagnare da 20.000 poliziotti, 3.000 veicoli, 11 elicotteri, 185 cani, 70 cavalli e una serie di cannoni ad acqua.
Mai così tanta sicurezza si era mossa dal dopoguerra. C’è stato comunque chi ha deciso di andarli a trovare.
Questo non vuole essere un diario di bordo di quei giorni ma il tentativo di una riflessione, al margine della memoria, che si apre annusando l’odore acre di una città in tumulto.
Siamo partiti in tre e potrebbero essere tre narrazioni diverse tra loro, ognuno ha vissuto la sua storia, chi è partito è tornato altro da sé.
Le giornate di Amburgo non sono finite. La repressione aumenta ed è spietata, il fine è chiaro.
Non è accettabile sfidare il mantra neoliberista: non puoi ribellarti, quello che abbiamo costruito è l’unico mondo possibile.

Se pensi di vivere in una tormenta, ai bordi della catastrofe, sappi che la società civile – bianca, borghese, europea, patriarcale – è il miglior riparo che puoi trovare, continuano a ripeterci.

L’occidente vuole essere ovunque, la merce più appetibile è quella delle relazioni, il linguaggio è superficiale ed impone controllo, produce depressione.
Sono ancora in trenta, moltissimi accusati senza prove, rinchiusi nelle carceri tedesche.
Sorvegliare, ma ancor più necessario punire.
Un’imponente muta di corpi ha attraversato le strade della città anseatica accompagnata dalla voce di Albert Camus: mi rivolto dunque siamo.
Uno sciame, con desideri e pratiche eterodosse si è mosso fuori da un’organizzazione centralizzata, ognuno secondo i propri mezzi, capacità, intenzioni si è fatto largo nell’immanenza di un evento.

Corri, salta, indietreggia, respira, avanza. Gioisci. 

Di qualche giorno fa due notizie ci parlano del livello di scontro politico che quelle giornate hanno innalzato nella campagna elettorale tedesca: la chiusura del portale Linksunten Indymedia, che in quei giorni di anti summit è stato l’organo autonomo di circolazione di sapere, con le minacce del Ministro degli Interni Thomas De Maiziere: “da questo momento, accedere al sito è un reato federale e le persone che si verificherà essere dietro la redazione del sito sono considerabili facenti parte di un’organizzazione terroristica”, e la prima condanna a uno dei corpi non docili: due anni e sette mesi di carcere, un anno in più di quello richiesto dall’accusa, grazie all’utilizzo delle leggi speciali create ad hoc per l’evento. Condanna senza prove: “è il diritto penale del nemico: non vieni condannato per un fatto ma per un’appartenenza” commenta Italo Di Sabato responsabile nazionale di Osservatorio sulla repressione.
Lo stato d’eccezione come paradigma di governamentalità, lo sappiamo bene: sovrano è chi nomina il terrorista

No, le giornate di Amburgo non sono finite
E dato che da qualche parte bisogna iniziare, raccontiamo la storia di perché i molti hanno deciso di partire. Partire per rispondere alla guerra in atto, ai morti nel Mediterraneo, all’oscenità del nuovo schiavismo, alla cultura patriarcale che uccide ogni giorno, alla solitudine, alle atrocità del nostro presente.
Partire per essere almeno un po’ più vivi, per incontrare nuovi amici, per conoscere e conoscersi.
Partire per contarsi, partire per cambiare pelle, partire per abitare il principio di un’autonomia comune. Sono state giornate di altissima intensità tra esseri umani, attimi che entrano dentro il corpo e producono la possibilità, seppur fragile e temporanea, di un’altra comunità di vivi.
C’è stata resistenza e gioia e tanta, tanta cura di sé e degli altri.
Dalle persone che hanno aperto le loro case per ospitare chi arrivava da lontano, oltre l’emergenza dei campeggi brutalmente distrutti dalla polizia nei giorni precedenti il summit.
Alla cura del cibo, cucinato e condiviso nei vari squat e spazi autonomi in giro per la città.
Cibo buono fatto con la sensibilità di chi sa cosa significa nutrirsi, tra sapori e convivialità.
Cibo prodotto dai contadini che resistono con le loro fattorie intorno alle metropoli.
Cibo che produce godimento e autonomia fuori dalle strategie di sussunzione delle città del food e l’ebrezza del biologico.
La cura del legal team pronti a usare il diritto del nemico in aiuto degli amici.
La cura dei soccorritori che con tempestività e coraggio hanno salvato dalla brutalità della polizia moltissimi viventi.
Si è prodotto sapere rispetto a quello che stava accadendo, una rete molteplice di organizzazione capace e attenta. Si è prodotta resistenza senza epica né eroismo.
Si sono costruite nuove amicizie tra sconosciuti.

It has to be colorful and peaceful / see you at the barricades era scritto sul manifesto che invitava a partire per la città ribelle tedesca. 

appunti al margine
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Quando il governo tedesco, Angela Merkel in primis, ha deciso di fare il summit ad Amburgo, città da sempre simbolo di antagonismo, lo ha fatto con la consapevolezza che in Europa sono sempre più in difficoltà le forme di resistenza alla vita capitalista, decidere di portare il G20 in quella specifica città di tradizione conflittuale significava, anche, dare il colpo di grazia ai movimenti.
In molti hanno detto l’opposto, ovvero, che una risposta insurrezionale è ciò che volevano, basta vedere la perdita di consenso del governo dopo una così spregiudicata e arrogante decisione per capire quale delle due posizioni è corretta.
Volevano cavalcare il deserto della militanza che abbiamo di fronte ma qualcosa non è andato come si aspettavano.
Un ironico colpo di coda, forse, qualcosa di più. Ce lo auguriamo.
Chi è partito sapeva di non andare a fare una passeggiata, si prendeva il rischio di essere nel mezzo di un paradosso, di un cortocircuito della società del controllo.

L’immaginario simbolico
C’è un simbolo che ha rappresentato nella mia testa il summit del G20: l’Elbphilarmonie. 
La Filarmonica di Amburgo progettata dalle studio di architetti superstar Herzog e de Meuron è stato l’obiettivo della seconda giornata di mobilitazione. Si cercava di arrivare là perché presidenti e consorti dovevano sentirsi un concerto.
Quel giorno è avvenuto tutt’altro e già dalla prime luci dell’alba fu chiaro che gli obiettivi sarebbero stati molteplici, con un netto rifiuto del farsi gestire dall’alto i luoghi del dissenso. 

Vorrei parlare di questa struttura per il suo valore simbolico. Non è il costo che colpisce (789 milioni di euro) ma la sua forma.
L’architettura raramente si rifiuta di costruire l’immaginario del potere istituito.
Questo immenso edificio alto più di 100 metri sull’HafenCity, il quartiere portuale satellite sul fiume Elba, è composto da due volumi che ci parlano di epoche diverse.
La base è un ex magazzino portuale denominato Kaispeicher A, costruito negli anni Sessanta e a lungo monumento muto del dopoguerra.
La struttura dell’ex magazzino è solida, fatta di mattoni e fronteggia il mare. Fa pensare, senza alcuna nostalgia fordista, a un tipo di produzione, alla storia di chi ci lavorava dentro, ad Amburgo città ribelle e punto nevralgico dell’economia capitalista europea.
La nuova struttura invece è in vetro, poggia sul vecchio magazzino in mattoni e impone l’immaginario dell’overlapping del capitalismo finanziario.
Nasconde tutto, si confonde: vuole essere come il mare, vuole essere come il cielo.
Il passaggio estetico di contrapposizione/inclusione di forme architettoniche è il medesimo passaggio economico-politico, esistenziale, che ci troviamo ad attraversare.
La funzione del nuovo edificio non poteva essere infatti che quella di un centro culturale.
I due architetti, come sempre, lo rivendicano: è un luogo pubblico non elitario e per tutti.
Ci mettiamo a ridere.
Uno di quei contenitori senza contenuto dove si produce tutto tranne che conoscenza e sensibilità. I luoghi del turismo di massa, dell’idiozia della vita come spettacolo.
Cultura, musica, arte, architettura sono le armi in mano a queste potenze e ai loro lacchè. La battaglia è anche qui.
L’Elbphilarmonie è un vero e proprio tsunami che si vuole appropriare della città, il simbolo della nuova Amburgo, l’immaginario simbolico di una nuova epoca.
Le stanno costruendo le nuove cattedrali, chi era ad Amburgo ha capito anche questo. E dato che da qualche parte bisogna iniziare, cominciamo con l’ordine del discorso che sempre si produce alla fine di una manifestazione conflittuale.

Sulla violenza, qualche nota 
Venire a parlare di non violenza quando c’è stato tumulto è un po’ osceno, è in realtà connivenza con il monopolio statale della violenza, commentava Oreste Scalzone dopo quel 14 dicembre romano che suscitò lo stesso scandalo della società civile. Ero tentato di non farlo ma visto che è una delle questioni che sempre torna vorrei provare, solo un approccio, con l’aiuto di altri, di che violenza stiamo parlando? Vi è la violenza legittima dello Stato che protegge il diritto e quella illegittima degli insorti, coloro i quali subiscono quotidianamente tale diritto. D’altronde cos’è il diritto se non il prodotto di una violenza costituente? 

Anche la manifestazione più agguerrita è poca cosa, in termini di atrocità, rispetto alla violenza invisibile dello Stato, della polizia, degli algoritmi, dell’economia, della tecnologia, dei confini, dei passaporti. Possiamo anche dire con Furio Jesi che nella rivolta c’è la sospensione del tempo storico, che nell’ora della rivolta non si è più soli nella città. è anche in quei momenti che appare la possibilità di una forma di vita autonoma.
Nella solitudine di una vita depoliticizzata, svuotata dalle passioni tristi, carica di un tempo senza presente, saltando e rincorrendosi per le vie di una metropoli che si solleva vi è anche la sperimentazione di una sensibilità ormai atrofizzata da una vita sempre più virtuale e vuota, vi è il momento in cui capisci chi sono i tuoi amici e il momento in cui capisci anche chi sono i tuoi nemici. 

Non sarò mai neutrale tra la violenza degli oppressi che si ribellano e la brutalità degli oppressori commentava Jean Genet e con lui potremmo cominciare a usare Rosa Luxemburg, Walter Benjamin, Bertolt Brecht, Angela Davis, Silvia Federici e molti altri ancora che hanno affrontato la problematica della violenza e le forme di contrapposizione ai poteri istituiti.
Anzi, dovremmo pensare un testo di citazioni, un détournement sulla violenza da mettere in faccia ogni volta agli idoli della morale dei post-manifestazione.
Sempre a tali idoli dovremmo fare una lista di ciò che accade ogni mattina quando ci alziamo dal letto: chi sta producendo sangue, miseria, sfruttamento e del come riusciamo tutti a vivere in una più o meno tormentata indifferenza. 

Come si alzerebbe l’uomo al mattino / senza l’oblio della notte che cancella le tracce?

La questione non è il tipo di forma in cui manifestare anche perché ormai, e per fortuna, non vi è più possibilità di gestione, di governo dei corpi che si prendono la strada.
La questione è far sì che questi momenti in cui il tempo diviene altro, in cui si è finalmente non soli nella città, che questa temporalità si colleghi alla vita che la temporalità del conflitto e dell’amicizia diventi contagiosa.
Giornate conflittuali come quelle di Amburgo non sono un fine: i corpi che attraversano quei momenti sono in parte gli stessi che quotidianamente abitano altri tipi di immaginari simbolici contrapposti a quelli Elbphilarmonie, nelle metropoli come nelle campagne, viaggiatori e sedentari, corpi consapevoli che non esiste un altro mondo, esiste semplicemente un altro modo di vivere.
La questione, quindi, non è solo il rischio di farsi relegare alle agende della politica istituzionale per ritrovarsi in queste forme ma far sì che tali incontri siano linfa vitale per continuare a costruire le condizioni materiali per far accadere una festa senza fine né origine in ogni dove, in ogni momento, in ogni corpo.

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 06
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per continuare la lettura di questo e dei prossimi numeri de L’Almanacco potete scrivere a info@laterratrema.org
o cercare la vostra copia in uno di questi nodi di distribuzione autogestititi dai sostenitori.

Last modified: 20 Ott 2019

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