SUL SONNO DELLA METROPOLI
di Mattia Pellegrini
in fotografia un’opera di Giorgia Frisardi
Non si può scindere la forma di vita metropolitana dalla metropoli, non si può separare la miseria esistenziale del presente dalla forma urbanistica in cui si è costretti a vivere. Separati, sempre alla ricerca di qualcosa, impossibilitati a vivere qui e ora, in attesa perpetua di un ruolo che non arriva, di una stabilità che si sposta sempre un po’ più in là, di una presa accettabile sulle nostre vite. La metropoli esclude, ed esclude la vita, si costruisce sempre più come immagine rarefatta, ospitale solo attraverso uno schermo. E la metropoli va in campagna e la campagna torna alla metropoli.
L’omologazione non è mai stata così totalizzante, alla fine l’umanità nova l’hanno creata loro. Quelli che hanno vinto, sconfiggendo con infamia le orde d’oro, la politica piegata all’economico, la vendetta socialdemocratica, la commissione trilaterale e i maledetti Chicago boys. E adesso protesi su protesi, apatia su apatia, distanza su distanza, immaginati e costruiti dalle teorie del transumanesimo: mai più corpi selvatici, mai più corpi sociali, mai più corpi umani. Non è un caso che abbiano trasformato le città in luoghi non per chi le vive ma per chi rapidamente le consuma. Non è un caso che ogni forma del conflitto, ogni luogo di dissenso venga messo al bando. È così che nascono le zone rosse non percorribili da singolarità incompatibili con la falsità metropolitana, è così che, quando con grande fatica si riconquista una piazza, attraversando la città collettivamente, anche lì lo schermo filtra il mondo, anche lì tutto è mediato dalla macchina-immagine a sostegno dell’algoritmo. La festa brucia ma lo fa velocemente e presto, troppo presto, si torna alla mediocrità della vita di tutti i giorni. Godere e intrattenersi, divenire corpi docili al consumo e all’obbedienza, questa è la linfa della forma di vita metropolitana. E non si può pensare oggi la città senza avere negli occhi le immagini delle macerie causate dai bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Non si può perché c’è un legame inscindibile tra il poter rendere accettabile la distruzione totale di una città e del suo popolo con l’idea stessa che di città sì è formata in occidente.
Stiamo assistendo alla rappresentazione più limpida del Moderno. La civiltà delle idee e della democrazia, la civiltà dell’enciclopedia e della tecnica, la civiltà del colonialismo, dell’ipocrisia, della Scienza. Ma la nakba è ovunque. Certo a intensità diversissime, ma nessuno, tranne i miliardari e i capi di Stato che ne ricavano potere e profitto, vede con gioia la sofferenza che questo mondo produce. Su ogni fronte tutto cambia e cambia in peggio. Conquiste fino a ieri date per scontate oggi sono a rischio. L’accessibilità alla vita, al poter stare con il tempo che scorre, sembra ormai un sogno lontano. Città, infatti, significa anche organizzazione della vita e dell’abitare e il pensare e costruire le possibilità di tale complessa struttura. La letteratura al riguardo è infinita e comunque sempre incompleta. Ogni tempo e ogni cultura ne ha dato una visione di città-mondo. Su tutte oggi si erge quella del moderno e quindi della forma capitalistica. La città-fabbrica, la città-evento, la città a uso e consumo del turista. La città a noleggio per il miliardario di turno, la città che mette al bando. E anche le zone fuori dai riflettori anch’esse vittime ma in altro modo, quartieri dormitorio, periferie con il culto della serie crime di turno, il fiume di cemento, la possibilità sempre in atto di essere rigenerati.
Lo sappiamo: dentro le metropoli stanno altre molteplici città, dentro ogni città stanno paesi e villaggi. Parti di metropoli lontane tra loro si assomigliano di più di quartieri limitrofi. Ci vuole un approccio non solo urbanistico ma geografico. Poiché in questo frantumarsi di spazio-tempo accade anche la magia e accadono anche le alleanze del sotto contro il sopra, attuando pratiche mutualistiche, sperimentali, meticce. Così ci renderemo conto che non bisogna per forza vivere a questa maniera, non è un dato di natura, non ci sono dati di natura, l’immaginazione è solo bloccata su profitto e dominio, e anche noi riproduciamo i medesimi schemi, una folla di passioni tristi. Si tratta allora di inoltrarsi in zone d’ignoto, destituendo saperi, convinzioni, potere.
È necessario prendersi la responsabilità di essere parte carnefice della Storia, ma anche necessaria la consapevolezza che un enorme forma di violenza viene prodotta contro certi corpi, contro una certa popolazione intorno, tra, su di noi. La violenza medica, l’incarcerazione sanitaria, l’idea di un soggetto abile, maschio, bianco. E non ne facciamo una retorica. Ne prendiamo semplicemente atto proprio per partire da qua, da se stessi, per liberarsi, per aprire conflitti interiori e verso il mondo.
Free Europe gridava Seun Kuti durante un concerto dell’estate 2025.
Free Europe from fascism, nazism, racism… gridando ai giovani europei di iniziare a prendere sul serio la loro condizione e non soltanto proiettandosi fuori, su vittime altre a cui trovare le proprie soluzioni. Un passaggio importante con cui fare i conti. Città e tecnica, corpi ed organizzazione di corpi. Bisogna finirla di proiettarsi sempre altrove, nel tempo e nello spazio. C’è qualcosa ancora da immaginare, da scovare, con cui riprendersi assieme. E lavorano incessantemente per cui questo non accada. L’età della tecnica non tende che a renderci superflui: disseziona passioni e fluidi, desideri e piaceri, anime e corpi. Ecco il mantra della tecnica, il nemico che non possiamo che continuamente chiamare a noi per fare ormai, quasi, qualsiasi cosa. È veramente un altro mondo oppure è finalmente visibile ciò che già si scorgeva molti anni fa? Ci davano dei teppisti, ci siamo ritrovati veggenti. Quali sono i saperi che consideriamo amici che, invece, fanno parte della colonizzazione e del massacro? Certo sappiamo quanto anche le conquiste siano parte di questa macchina di morte, i soldati assassini dell’IDF usano femminismo e teorie queer per legittimare la disumanizzazione del popolo palestinese. Rivendicano, mentre affamano una popolazione intera, di essere l’esercito più vegan di sempre. Non possiamo fuggire da questa constatazione, non possiamo non vedere l’ombra di violenza e dominio che porta con sé ogni conquista, ogni metamorfosi sovversiva dell’ordine istituito che da occidente si muove verso il resto del mondo. In conclusione, fare buone domande e poi mettersi alla ricerca delle risposte, è pratica collettiva da attuare, oppure, la questione è altrove e sono i gesti ciò che dobbiamo scovare.
Finché restiamo imprigionati nel recinto dei «perché», delle ragioni o dei moventi, non usciamo dalle infami praterie del diritto. E avevano una buona ragione per chiuderci là. Altrimenti, avremmo preso la cattiva abitudine di pascolare nei campi della vera politica: dove la vita non è un problema da gestire, ma il flusso sempre interrotto delle nostre forme di vita; dove le cose sono di chi le sa usare; dove la nostra potenza non si cristallizza nel loro potere. Dove la politica, cioè, coincide integralmente con il tessuto discontinuo dei gesti, della vita quotidiana.
Felix Closter in “Depose. L’insurrezione dei sopravvissuti”

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 38
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org
Last modified: 15 Dic 2025

