SE È MATURA, RACCOGLI
La tenerezza del raspo si è fatta dura e legnosa.
È stato un mese lungo e complesso, settembre difficile, esaltante, estenuante. Inaugurato dai postumi dello sfratto a freddo del Leoncavallo Spazio Pubblico Autogestito e inframmezzato da una costellazione di occasioni significative.
La minaccia di sgombero dello spazio che per un ventennio ha ospitato LTT, le agricolture e la viticoltura di mezza Italia, si è concretizzata il 21 di agosto. Il fulmine preannunciato ha folgorato via Watteau.
Milano, al momento, ha perso molto. L’abbiamo detto infinite volte.
Il Leoncavallo è la storia di mezzo secolo di questa città. Ciò che tra le sue mura è passato/avvenuto ha determinato moltissimo. Musica, teatro, arte di strada, cinema, socialità, politiche antiproibizioniste, vini e cibi, economie, cultura.
Di contro, sul piatto, il Comune ha messo un’offerta nauseante. Senza imbarazzo ha proposto un luogo inadeguato, malato, contaminato, colmo di amianto, lontano. Un luogo che a risanarlo costerebbe milioni, che sarebbe più assennato andare a spendere altrove. Altro che bando.
La proposta di Beppe Sala al Leoncavallo dice molto, ai più attenti.
Dice di posizionamenti e di gravi lacune.
Dice che lo spazio proposto dal Comune in San Dionigi è stato rifiutato da tutti, anche da chi ci sguazza nelle rigenerazioni. È una gatta da pelare lampante, palese, evidente.
Dice di una metropoli che ha svenduto il suo patrimonio immobiliare (quello di cittadini e cittadine) a favore di imprese, capitali privati, élite finanziarie. Dice che in mano (e in tasca?) comincia a rimanerle ben poco.
Dice del suo passato operaio, delle fabbriche in abbandono, di un patrimonio architettonico dismesso, preso e rivoltato con le occupazioni negli anni Novanta e oggi oggetto di mira di speculatori rampanti, cecchini del soldo, bava alla bocca, insaziabile.
Dice di espulsioni, di regressione, di securitarismo, di assalti al territorio, di forti poteri economici che governano la forma città, dice di un welfare inesistente, deprivato, incapace, inadeguato. Dice di zone rosse e appalti facili, di chi può e di chi è interdetto. Di un inferno profondo per quasi tutti/e e di un paradiso per pochissimi. Dice di reclusione, di emergenza abitativa, di assediati e assedianti.
Fuori dalla città, nell’italietta meloniana, le cose precipitano ulteriormente. Le regole saltano, è il tempo del valetudo, dei Decreti Sicurezza e Caivano che inaspriscono pene e controlli, che tentano di restringere il campo delle possibilità di ognuno/a. È il tempo dello sterminio, delle prosa senza vergogna, della menzogna sfacciata. Un assedio a noi, a ognuna/o.
Bacche nere e vermiglie son strette, unite, compatte.
Eppure se Milano, è vero, molto ha perso, tanto ha ritrovato. La soglia del sopportabile si è infranta. La risposta allo sfratto del Leoncavallo ha riattivato animi, pensiero, pratiche, confronto critico. La città militante del 6 settembre, ha preso strade, piazze, palazzetti incelofanati e incompiuti consacrati al Modello Milano, ha preso parola, ha urlato nella forma di un infinito corteo.
E non solo. Il 22 settembre, un organismo vivo di corpi ha reagito, con lo sciopero generale e il blocco delle città, al genocidio sionista in Palestina, al quotidiano massacro di uomini, donne, bambini/e che da due anni avviene sotto lo sguardo di tutte/i, con il silenzio e la complicità della gran parte delle istituzioni occidentali, Italia compresa. 
Il corteo ha rotto gli argini verso un possibile, ha preso a farsi spazio, sotto una pioggia battente. Un corpo sociale immenso e coeso si è fatto determinato per entrare in Stazione per dare concretezza al suo doveroso «bloccare tutto».
La legittima rabbia di questo coeso corpo sociale è stata accerchiata dalla violenza delle manganellate, dei lacrimogeni, della repressione, dai numerosi fermi e dagli arresti anche di due minorenni.
Se è matura raccogli.
Quanto è accaduto e sta accadendo è ulteriore segno dei tempi: autoritarismo, fascismo, repressione securitaria prendono piede in tutto l’Occidente. Un Occidente decrepito e ipocrita che affossa “democrazia” e diritti e si lancia verso guerre e miserie.
L’orizzonte odierno delle possibilità sembra costruirsi in un nuovo modo, con la consapevolezza delle fragilità, dell’incertezza strutturale del vivente nell’agire il conflitto. E va avanti nonostante questo. Sumud. Blocca, frange vetrine e flutti, porta i propri corpi all’arrembaggio di porti, strade, piazze, con le pietre o con le mani in alto. Nelle città (nelle periferie, nelle campagne) prova a prendere in cura i nuovi luoghi in abbandono, le rovinose macerie di quell’enorme bluff che è la “civiltà occidentale”. Sumud. Insegna che resistenza è un rimedio, al male (più o meno interiore) dell’oppressione colonialista, alla feroce aggressione ai popoli, agli/lle espulse/i.
Ai margini della stesura di questo editoriale questo corpo sociale, riottoso e smisurato, si è materializzato, nelle strade, numerose altre volte. Sempre più in crescendo. Il 3 e il 4 ottobre 2025, la materia discola che lo compone si è fatta inarrestabile come fiume. Dilagante, ha contagiato gli animi. 
Se è matura, raccogli.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 38
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org











Last modified: 31 Ott 2025
 
                                        
                                 
        
        

 
                            
                      
                            
                      
                            
                      
                            
                      
                            
                      
                            
                      
                            
                      
			 
              
             
              
             
              
             
              
            