EDITORIALE | Ovunque, nei margini
We’ve waited for this day / We shed some tears of love now
Like a desert in the rain / When some of the dead are waking up (mmm, yeah)
There’s nobody like my mom / There’s no place like my home since I was born
When I was young / The flavor is so strong / I’ve missed it so long now
Territory, The Blaze, 2017
Questo trentasettesimo numero de L’Almanacco de La Terra Trema si muove intorno ai segni e al suono di parole vive che dicono casa, abitare, territori, spazi, città, di altrove, di qui, di ovunque.
In giorni canicolari, città e mondo esplodono sotto ordigni genocidi, si accartocciano nell’insensato senso di predisporre un avvenire inumano.
Luoghi, case, spazi ci vengono tolti e ci accaniamo nell’escogitare come prenderne di nuovi, come agevolare spazi di apertura radicale, come affrontare le espulsioni coatte, fuori dalle metropoli oppure dentro, negli abissi di reclusione, nelle galere, nei CPR, negli schermi d’azzurro ovattato.
Ci accaniamo a trovare luoghi ove abitare, ove sentirsi a casa e vivere. Spazi di un intimo rifugio per noi stessi, per la collettività che attraversiamo, per chiunque voglia.
Abitare non dovrebbe chiedere eventualità, dovrebbe essere prerogativa, possibilità di ognuno/a.
Sappiamo che così non è, che «a volte, casa è in nessun luogo. A volte si conoscono soltanto alienazione e straniamento»1. Sappiamo che «casa non è più un solo luogo. È tante posizioni. Casa è quello spazio che rende possibili e favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento, uno spazio in cui si scoprono nuovi modi di vedere la realtà, le frontiere della differenza»2, che impari a leggere, nell’esercizio del pensiero critico, nelle dilatazioni delle metropoli, nel loro farsi reticolo, massa cavillosa, estesa, che spinge fuori da sé, sempre di più, l’idea di abitare, di creare e accogliere comunità e che trattiene a sé solo economie capitalizzanti, che fanno colonia degli spazi pubblici, delle possibilità di agire autonomo, in indipendenza.
«(…) Quei pochi di noi che ce la fanno a rimanere in quello spazio “altro”, sono spesso troppo isolati, troppo soli. Ci si può addirittura morire. Quelli di noi che restano in vita, che “ce la fanno” ,(…) continuando a cercare un sapere ed esperienze nuovi, inventano spazi di apertura radicale. Privi di tali spazi non sopravvivremmo. Le nostre vite dipendono dalla nostra capacità di concettualizzare alternative, spesso improvvisando. È compito di una pratica culturale radicale teorizzare su questa esperienza in una prospettiva estetica e critica. (…) questo spazio di apertura radicale è il margine, il bordo, là dove la profondità è assoluta. Trovare casa in questo spazio è difficile ma necessario. Non è un luogo “sicuro”. Si è costantemente in pericolo. Si ha bisogno di una comunità capace di far resistenza»3.
E dunque, serve determinare come stare in questo margine prezioso, ovunque questo sia situato, per chiedere conto di oppressioni vecchie e nuove, per ribadire chi siamo, di chi non vogliamo essere/diventare schiavi, a chi saremo ostili, oppure di chi saremo complici, sodali.
«La marginalità è un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza. Questa marginalità, che ho definito spazialmente strategica per la produzione di un discorso contro-egemonico, è presente non solo nelle parole, ma anche nei modi di essere e di vivere. Non mi riferivo, quindi, a una marginalità che si spera di perdere – lasciare o abbandonare – via via che ci si avvicina al centro, ma piuttosto a un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi. (…) Capire la marginalità come posizione e luogo di resistenza è cruciale per chi è oppresso, sfruttato e colonizzato. Se consideriamo il margine solo come un segno che esprime disperazione, veniamo penetrati distruttivamente da uno scetticismo assoluto. Ed è proprio lì, in quello spazio di disperazione collettiva, che la nostra creatività e la nostra immaginazione sono in pericolo, che la nostra mente viene colonizzata, che si desidera la libertà come fosse un bene perduto. Parlare dai margini, parlare nella resistenza.
(…) Io sono nel margine. Faccio una distinzione precisa tra marginalità imposta da strutture oppressive e marginalità eletta a luogo di resistenza — spazio di possibilità e apertura radicale. Questo luogo di resistenza è permanentemente caratterizzato da quella cultura segregata di opposizione che è la nostra risposta critica al dominio»4.
Che sia tra prose di pomodoro, circondate/i da portulaca selvatica, in uno spazio occupato, in corteo, nel parlarsi in cerchio, che sia sul dondolo sotto il portico di edilizia popolare, che sia oltre i binari, in un campo di calcio polveroso, che sia tuffandosi nel Naviglio di Bereguardo, potando ulivi e vite, guardando negli occhi le vacche, che sia sovrappensiero su un monopattino, dentro tute in acrilico, che sia nello scambio, che sia dove siamo nati, dove siamo rinati, dove siamo cambiati, che sia in ogniddove, possa ognuna/o trovare luogo per sentirsi a casa. Possa ognuna/o trovare casa. Anche La Terra Trema.
Grazie a chi, per questo numero 37, ha dato voce, senso, segno, pensiero, casa.
1 bell hooks – Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale – Feltrinelli, 1998
2 ibidem
3 ibidem
4 ibidem

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 36
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org
Last modified: 7 Ago 2025