ALTISSIMA MISERIA
di Claudia Di Palma
illustrazione di Francisco de Zurbaràn

Madre, disangolata figura 

d’acqua, laddove il fuoco 

s’inerpica e si perde.


Materna per ogni naufragio


che nella tua sapiente forma


di deforme bocca, si spezza. 

Spaventosa fluidità e lontanissimo 

fondo, grembo messo a fuoco, 

vergine ad ogni solco, 

scomposta come mare e voce. 

Madre, la tua trasparenza


è per chi ti raccoglie. 



Sono incinta dell’evento,


di ciò che è a venire.


E mi fido, spalanco il grembo


e gli occhi a ciò che sarà figura


– adesso è ancora buio.


Adesso è l’alba, il gesto annuncia. 

E io cammino sicura


con le mie membra di spavento. 



Ombra, maturo frutto, cadi


da un raggio e ti spargi nel mondo. 

E rendi esatto il tutto.


Tu sei l’utero che raccoglie


e sprigiona la luce, che confina


e sovverte, disegna e poi


scompone una figura. Ora ti sposi, 

ora ti separi da un volto.


Mi resti dentro come un segreto. 

Un tonfo che diventa preghiera. 



Io condivido la mia fertilità


e tu avvicini il seme. Insieme 

costruiamo sentieri e iniziamo


ogni istante. Facciamo di nuovo


il principio con i corpi che siamo,


i verbi che abbiamo. Questa carne 

nuda è il principio del mondo


se come verbo si pronuncia


fra le tue braccia. Offro la mia fertilità. 

Tu avvicini il seme e ascolti. 



Spesso le distanze sono case,


le vicinanze invece sono estranee.


E com’è strano essere nella dimora


del lontano ed essere ancora qui


con tutte le mie forze


a sostenere la metratura delle tue braccia 

grandi, gli scavi delle tue pupille


che non finiscono. Spesso scavare


per il petrolio dei tuoi occhi. E com’è 

fine questo tuo non finire lo sguardo. 

Lavoro nelle tue miniere


senza pensionarmi, senza percepire


un soldo, contemplo le tue spese,


le tue buste colme, i tuoi avanzi più vivi. 



Cura, dolce intransigenza


del sole, il mio buio tra le ciglia, 

la buia fessura del corpo


con vista, alla soglia tra la luce


e la tua materia umana. 



Il piacere grande dell’espellere,


mandare via i residui, concimare la terra, 

concimare la madre, restituire


– il frutto ritorna alla radice


come i morti ritornano nel grembo.


Farsi l’amore è rasentare la consumazione, 

cercare l’assenza di sé, tendere l’orecchio 

a ciò che è più sottile e provare


ad essere inconsistente


in un enorme altro che ti avvolge. 

Facciamo ancora la pioggia. Unendoci. 



C’è un attimo in cui stiamo per fare 

ma non facciamo ancora, 

vorremmo sapere ma non sappiamo. 

Quello è il luogo della nascita. 

Poi la tua decisione, la tua legge


cessa di vedermi e io posso fare lo stesso


con te, ma indugio, e il vento scatena temporali, 

la tenda sbatte forte sulla finestra.


Ecco il confine, dove noi siamo insieme. 



Rendimi la sensazione grande


che mi lascia in disparte.


Rendimi l’orecchio che è più piccolo 

dell’ascolto. Rendimi sola 

e avvolta, permeata dal rumore. 

Rendimi la polvere che resta 

davanti a ciò che brucia. Attonita. 

Quasi qualcosa. Rendimi il quasi 

mentre tutto si veste e si sveste. 

Rendimi nuda periferia. 

Fiore spiazzato dal campo. 



Raccolgo echi, parole non mie


e le dirado come vento, soffio


fino all’origine che non si trova


o un qualsiasi punto sulla mappa – 

ogni punto è origine di questa 

tessitura-mondo che non si chiama. 

Mondo che non ha nome, ma tanti 

nomi nominano invano. Tanti. 

Eppure ogni parola è sola – e vasta, 

devastata. Ettari di silenzio 

la cingono, eterne gole che articolano 

e declinano ciò che io a notte 

raccolgo: esule e disorientata, 

amnesica eco senza casa. 

Deserto, disertato ventre. 



Studio l’arabo.


Provo a scrivere il mio nome


con altri segni. Mi provo straniera. 

Faccio mio ciò che si perde.


Damasco. Cerco di approssimarmi


al simulacro polveroso di una città,


parlo la lingua dei suoi profughi.


Scrivo come se facesse tanto freddo


nel campo dove sono esiliata, confinata – 

pago tutto con la sola pelle


ma posso solo immaginare,


male immaginare il dolore di Dio. 



Soffro di voragini, mi cado dentro


e, per quanto possa chiedere a un altro 

il colpo ferente della sua presenza, 

rimango qui, nella dolcezza dei baratri, 

mi trattengo per continuare a cadere 

svincolata dalle mie stesse mani 

abbandonata sul fondo delle mie ossa. 



Ti gonfi come un temporale


e la tua doglia è un rassicurante


tuono, gioia che ti cresce dentro


con la voglia di venire fuori.


La vita si apre, si snoda dal tuo 

gomitolo stretto, casca, si sbuccia, 

sembra matura come una parola nuova 

sulle labbra appena increspate,


le tue labbra spoglie e diroccate.


Ogni parto è un trapasso,


non ti riempie ma ti fora la parola. 




In “Altissima miseria” (Musicaos, 2016) Claudia Di Palma instaura un corpo a corpo con la nominazione e la figura, con il loro (suo) fine, il loro (suo) confine, la loro (sua) fine. Dai suoi versi si ergono le Domande: “In cosa e quale dove la parola può il Mondo? Quale tipo di Mondo partorisce il nominarne la figura, le sue infinite possibili figure?”. Di Palma pare indicarci un’ipotesi di via asciutta e confinante: noi siamo le figure che le parole ci delineano addosso, noi siamo la trama che la frase ci ricama intorno, noi siamo l’equivalente solare, il veribile vivo e carneo del linguaggio. In “Altissima miseria” la poeta ci porta a immaginare l’alfabeto come semenza del ragionamento e primo paesaggio, atto fondativo, del nostro esistere.


Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 36
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 20 Giu 2025

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