Viticoltura valtellinese, visioni (bio)diverse

Testo di Emanuele Del Curto per Orto Tellinum – Genuino Alpino
Foto di Orto Tellinum – Genuino Alpino

Orto Tellinum nasce per la necessità di recuperare dalla rovina terre alte, dimora di viti secolari, patrimonio inestimabile a rischio, erto tra terreni terrazzati piccolissimi; nasce per ridare voce al sapere terreno (e cognitivo) di uomini e donne di tempi passati, cimeli viventi che in quelle terre hanno saputo vivere; nasce dal desiderio di ravvivare un territorio, di salvaguardarlo dall’incuria, dal dissesto, dall’oblio.

La viticoltura in Valtellina è stata per secoli eroica perché non particolarmente “comoda”, abbarbicata com’era sul versante solivo delle Alpi, con vigne appoggiate su terrazzamenti costruiti nel corso di secoli con muri a secco, in pietra e terra raschiata dalla roccia madre del versante e, spesso, portata a schiena dal fondovalle.

Insieme a specie vegetali e animali autoctone adattatesi nel corso di moltissime generazioni, ha costituito il nucleo dell’economia alimentare delle popolazioni telline fino all’era contemporanea. Un’era segnata dall’abbandono. Soprattutto, a un ritmo incalzante nel corso degli ultimi anni, abbandono delle vecchie vigne, ma ancor più delle vecchie piante. Spieghiamo meglio: molte vigne stanno venendo abbandonate alla natura che si rimpossessa di quanto è suo. Abbandonate perché i vecchi viticoltori non hanno, nella maggior parte dei casi, un ricambio generazionale da parte di figli e nipoti che considerano la cosa démodé (a differenza di bere il vino), oppure lavorano troppo (nonostante la crisi), oppure preferiscono passare il fine settimana in un centro commerciale o, ancora, sono proprio emigrati in terre (o città, per lo più) più interessanti.

In molti casi si tratta di vigne antiche e ad alta varietà biologica (la biodiversità, parola che comincia a circolare anche fuori dalla platea degli addetti ai lavori) che vengono risolutamente estirpate, perdendo peraltro anche secolari e difficilmente ripristinabili diritti d’impianto. Abbandono di tradizione (non sempre virtuosa e da salvare tout court), consapevolezza storica e stile di vita, oltre che, appunto, di biodiversità. Tutto questo avviene mentre enti, politici e attori sulla scena pubblica si riempiono la bocca con la retorica del territorio da salvaguardare, promuovere, valorizzare. In realtà il territorio lo si vuole sfruttare, impacchettare e far fatturare (come il capitalismo più green insegna). Non sempre certo, non comunque, non ufficialmente, non alla lettera, ma se il paradigma è quello della crescita economica, del Pil qualsiasi iniziativa appare inevitabilmente funzionale a quell’obiettivo.

Le cantine?
Poi ci sono le cantine, le case vitivinicole, storiche e più recenti, che esportano buona parte delle produzioni e, direte, che male c’è? Lunghi e oltre la viticoltura sarebbero i ragionamenti da farsi.

Spesso, poiché sono imprese, badano principalmente al profitto, e per profitto tendono a abbandonare gli storici impianti a ritocchino, quelli secondo la pendenza, con andamento sud-nord-verso il cielo, in favore di quelli a giropoggio, posti trasversalmente, nei quali si può meccanizzare e, così facendo, eliminano il carattere eroico della viticoltura dei terrazzamenti, stravolgendo il paesaggio. 

Ancor peggio, estirpano piante centenarie sempre più rare, con radici che vanno in profondità nella roccia, vero e proprio patrimonio genetico sostituito da nuovi impianti di cloni prodotti industrialmente in vivai dai quali escono, spesso, già alla nascita, contaminate da virosi e batteriosi del legno, che le porteranno ad avere una vita molto più breve di quella che avrebbero avuto le vecchie viti, oltre che a necessitare di più trattamenti anticrittogamici, ovviamente. Lavorate poi, appunto, con molti trattamenti e concimazioni (quest’ultime in sostanza inutili, poiché la vite è una pianta che non richiederebbe alcuna concimazione – come pure qualunque pianta, secondo le intuizioni ancora dote di pochi pionieri della coltivazione del futuro) che contaminano i suoli, l’aria e le acque della fertile valle alpina, come più gravemente fanno le monocolture di mele di varietà moderne sui conoidi del fondovalle. 

Gli eredi
In questo scenario di viticoltura bio-uniforme, industriale, senza consapevolezza storica in quanto propria di operai e imprenditori agricoli – e non più di coltivatori custodi del territorio e della natura – qualche eroe resiste ancora. Qualcuno che ha capito, che salva vigne antiche e cerca in tutti i modi di mantenerle, ringiovanirle, lavorarle come una volta, con rispetto, con qualche importante accorgimento innovativo e migliorativo. E che diffonde questo messaggio.

Altri lo stanno seguendo, pochi se confrontati con la massa inconsapevole e disinteressata. Viticoltura il più naturale possibile e idem per la vinificazione, perseguendo l’impatto minimo sia sull’ambiente sia per la salute, nostra e del pianeta che ci ospita. Per produrre un vino naturale, di origine biodiversa (questa un’altra ricchezza, non monetaria ma di sensazioni ancestrali) e con meno chimica possibile, al di là dei disciplinari (bio o no), delle sottozone, dei marchi e del mercato. 

Loro non lo direbbero, perché sono umili, ma sono gli eredi degli eroi del passato.

da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 13
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori

Last modified: 20 Nov 2022

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