I confini di un’estate | Editoriale Autunno 2016 Almanacco 02

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I confini di un’estate
di Laura M. Alemagna
Immagini
di Davide Marconcini e Mhamed Hebboul

Madre
fammi ostinata come le more
capace di crescere lungo le strade più aride,
di spuntare all’improvviso dove non te lo aspetti
regalando un po’ di dolcezza a chi è in cammino 
Slavina

 

Dell’estate che ci lasciamo alle spalle.
Nell’incalcolabile numero di cose accadute su cui sarebbe necessario soffermarsi ne scegliamo una sola, che anche abbiamo vissuto sulla pelle.
Ventimiglia è un’emergenza ipocrita e si gonfia e si sgonfia, secondo regole ipocrite. Le maglie di quel confine – come quelle di ognuno degli altri – si allargano e si stringono con cadenza sistematica. A decidere di squarci o cuciture sono imminenze elettorali, gli enormi vuoti massmediatici tra proclami e spauracchi; a decidere il come e il dove sono la marea e i flussi dei finanziamenti nel settore. A deciderne i ritmi sono i tempi della raccolta del pomodoro e delle arance, l’acinellatura delle uve, la maturazione dei cocomeri. Questi a noi non lontani, tutti nella spesa sulle nostre tavole. A Ventimiglia intorno al cibo si è ordito un nodo scorsoio, con la somministrazione coatta, condizionata, possibile solo a patto di accettare limiti, vincoli della propria libertà di movimento; con il divieto, la punibilità dell’atto di condividerlo, la criminalizzazione dell’accettarlo. E così alla scelta grave di delocalizzare le responsabilità e le mancanze politiche nazionali si è aggiunta l’assurda localizzazione di responsabilità che invece sono umane, civili e civiche, con un’ordinanza comunale atroce che ha vietato e vieta a tutt’oggi la distribuzione del cibo ai migranti in transito. 
Per opera di chiunque, anzi no, fatto salvo chi non stia dietro cancelli e sbarre di una struttura che alla fine ti detiene, ti vuole fermo a stazionare, per dei mesi, e poi per altri ancora. Vuoi mangiare? Preso. È una palla prigioniera cui si cerca di scappare. E così è passato Agosto, nella normalizzazione dell’avversione, nel silenzio della stampa, nell’assuefazione dello sguardo e dell’orecchio alla negazione di diritti basilari, alle deportazioni, di fronte allo sfinimento dei corpi, al naturale desiderio di andare oltre.
Continuare, insistere, rileggere e riguardare il proprio vivere quotidiano senza togliere di prospettiva quel che è accaduto e accade a ridosso di questi confini; fare necessaria una commistione degli sguardi, fare che riguardi ognuno, nell’atto di cibarsi e non solo, nella metafora del cibo e nel suo concreto attuarsi, una commistione sostanziale, come ritorna, tra le pagine qui, nelle narrazioni di Mattia Pellegrini o di Giuseppe Li Rosi. Nel lavoro di quest’ultimo. Semi e persone, forzatamente in uno Stato d’illegalità insensato, poco lungimirante. Solo nel sincretismo tra diversità rimane la possibilità di resistere. Ritorniamo a Ventimiglia, lasciando che arrivi la considerazione di Elisabetta Condò, che la commistione ha voluto attuarla e ha rifiutato il divieto, oltrepassato la soglia, andando più in là. Con courage: “Oltre confini costruiti ad hoc, sin dall’inizio della loro storia, per escludere ed emarginare sì, ma anche per trattenere al proprio interno nella violenza di un’attesa snervante e vegetativa, persone senz’altra colpa che la volontà di un futuro, appese alla speranza che uno sguardo si posi e veda storie dietro a volti, viaggi, sogni, sapori non meno degni di esistere dei propri. E ancora una volta le frontiere del viaggio sono diventate confini sbarrati, costruiti per trattenere e sfruttare nella stagione della raccolta, negli spazi del lavoro sommerso, nero come pece, nell’ipocrita proposta di impieghi socialmente utili a cui sottoporre persone prigioniere col ricatto di una legittimazione fatta pesare come un macigno.
Ma il re è nudo.
La libertà e il lavoro ancora una volta da diritto si sono fatti privilegio, strumento di potere, moneta di scambio sul banco del liberismo. La cittadinanza non riguarda l’appartenenza all’umanità ma la capacità di essere manodopera, possibilmente a basso costo. E il confine è funzionale a tenermi dentro, finché non servirò e potrò essere utilizzato, serve a tener basso il costo del mio lavoro e quello di chi dentro quel confine vive, con sempre maggiore fatica e astio. E intanto, se sono quello che ha viaggiato, devo stare buono: accettare che la mia frontiera sia confine spinato, il mio orizzonte il muro di un centro e dire grazie all’aguzzino vestito da buon samaritano per il pasto sul vassoio grigio da consumare in silenzio sull’asfalto di un cortile e per quella branda in cui poi, subito, andare a dormire. E intanto, se sono quello che dentro i confini è nato, devo stare zitto: non distribuire pane, non condividere il pasto, non parlare con le persone, non ascoltare le storie e, soprattutto, non raccontarle, non allungare lo sguardo, non chiedere di capire, non alzare la testa, non sedermi accanto. Accettare quel confine spinato che chiude anche me e mi impedisce di accompagnare e condividere sulla strada e lungo gli scogli, anziché assistere ed elemosinare dietro le sbarre. 
Ma questa violenza ha dei volti e delle responsabilità politiche, dietro la delocalizzazione delle decisioni e l’ipocrisia dei proclami nazionali, c’è una sovranità esercitata che usa il cibo e il lavoro come ricatto. Il re si mostra sempre più nudo: sta a noi guardare coi nostri occhi o credere alle bugie degli impostori. Non lasciare che il nostro sguardo si assuefaccia.
Dell’estate che ci lasciamo alle spalle resta l’immagine resistente di volti scuri che dicono di no ai pasti elemosinati e dirigono passi consapevoli verso gli scogli, come frontiera non il tornello di una dogana blindata ma il mare color del vino la cui regola antica erano lo scambio di doni e di cibo, il valore dell’ospitalità”.

editoriale

Motovedetta a memoria | zio Momo

 

 

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n.02
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
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Last modified: 20 Ott 2019

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