SCAGLIE DAL PAESE DI BENGODI
Secolare e geniale: il Parmigiano Reggiano. Ma oggi puoi calcolare la misura della ricchezza di Luca solo se dirotti i termini di misura verso altro, verso cultura, socialità e gusto.

di Paolo Bellati fotografie di Laura M. Alemagna

Le proposte spesso diventano sorprese. Le sorprese succede che diventino relazioni e collaborazioni. Alle relazioni va data importanza, bisogna coltivarle che a volte ne nascono legami e poi progetti importanti.
Per noi i progetti più belli hanno questa genesi.
Una delle sorprese più significative della decima edizione de La Terra Trema,  per quanto riguarda la rosa dei produttori partecipanti,  è stata sicuramente la conoscenza di Luca Ruffini e del suo lavoro con la Latteria Sociale di Beduzzo Inferiore a Corniglio (Parma).
Un piccolo caseificio storico (nato nel 1850), in un territorio che esprime una delle produzioni italiane più conosciute e riconosciute al mondo: il Parmigiano Reggiano

Quello di Beduzzo è Parmigiano Reggiano di montagna. Nove piccolissime, piccole e medie aziende che allevano un totale di 400 vacche a circa mille metri di altitudine (l’azienda più piccola ha sette vacche e le più grandi, quella di Luca e di un altro socio, cento), conferiscono in forma di cooperativa il proprio latte nel caseificio. Latte che tutti i giorni viene trasformato nelle storiche forme di Parmigiano Reggiano DOP, formaggio a pasta dura, prodotto con latte crudo, parzialmente scremato per affioramento, senza l’aggiunta di additivi e conservanti. Non potevamo non fare al più presto un giro da queste parti. Ogni giorno alla Latteria Sociale Beduzzo arrivano dai 65 ai 70 quintali di latte, 28mila quintali all’anno. Una produzione che corrisponde, più o meno, a quella di una grande stalla industriale della bassa da 300 vacche. Dai 18 ai 22 chili di latte al giorno per capo, rispetto ai 35-40 chili di un’azienda zootecnica delle nostre parti, la Pianura Padana. Numeri produttivi che da soli già connotano il tipo di allevamento e sfruttamento animale. Le vacche qua mangiano praticamente solo fieno, non mangiano insilato di mais e insilato d’erba. Gli insilati sono alimenti per animali fermentati ottenuti stoccando, in piattaforme di cemento ricoperte e sigillate da dei teli di plastica, generalmente mais e erba, ma anche altri cereali, raccolti e sminuzzati meccanicamente.
Gli insilati sono vietati dal Disciplinare del Consorzio del Parmigiano Reggiano per ragioni organolettiche ma anche perché, non aggiungendo additivi e antifermentativi, il formaggio derivato da latte prodotto da vacche alimentate a insilato correrebbe il rischio di “scoppiare” (i batteri potenzialmente presenti nel latte delle vacche alimentate in questo modo potrebbero causare dei rigonfiamenti e buchi nelle forme di formaggio).

Il processo produttivo all’interno del consorzio è irreggimentato e controllato. Le procedure di lavorazione sono ben definite e seguono un percorso ben tracciato. Ogni fase della lavorazione prevede controlli della DOP, controlli e analisi sanitarie e dell’ASL.
Immaginare di uscire da questo meccanismo è, a oggi, praticamente impossibile.
Avere lo stesso riconoscimento che il marchio Parmigiano Reggiano garantisce vorrebbe dire immaginare e costruire una narrazione totalmente nuova, far riconoscere, in indipendenza, le specificità territoriali e storiche con elementi di innovazione, sottraendosi da quello che oggi rappresenta il colosso Consorzio. Vorrebbe dire soprattutto costruire una modalità non solo produttiva, ma anche distributiva del tutto nuova, lontana dal mercato della grande distribuzione organizzata.  
È eroico solo il fatto che esista un piccolo caseificio del genere all’interno di un consorzio come questo. È eroico il lavoro quotidiano di Luca. Giornate intere passate al caseificio, nella sua azienda ad allevare le vacche, avanti e indietro col suo furgone per fare fiere, mercati e soprattutto per consegnare, anche casa per casa, il suo formaggio perché, come ci tiene a dirci con convinzione: “uno dei miei obiettivi è far mangiare un prodotto di altissima qualità ad un prezzo accessibile a tutti. Luca tre volte alla settimana è a Milano con i suoi pezzi di formaggio confezionati e tutta la sua esperienza e passione.
Nel dopoguerra 170 famiglie conferivano il proprio latte in questo caseificio, ogni casa di montagna aveva le sue due, tre vacche nella stalla.
La storia di questo formaggio invece è molto più lunga. Una storia di mille anni che inizia con le bonifiche delle terre emerse dal Po, nelle abbazie dei monaci benedettini nella zona di San Polo di Torrile che sta sotto Parma, verso il Mantovano, terre circondate da fiumi e montagne, paludose ma molto fertili. Per lavorare queste terre avevano tantissimi buoi che turnavano i loro cicli lavorativi. Tantissimi buoi e moltissime vacche, un’enorme quantità di latte.
Fu così che i monaci si inventarono un formaggio in grado di durare nel tempo senza ammuffire. Guardando oggi a questo formaggio risulta ancora più straordinario che intorno all’anno mille, senza conservanti e senza chimica, si sia riusciti a fare un formaggio inattaccabile da batteri e muffe.

La lavorazione
Luca provocatoriamente ci dice: “se voi mettete per quindici giorni un pezzo del mio parmigiano all’aria aperta, al sole e sotto l’acqua non vedrete comparire muffe. Diventerà molle, brutto, ma non vedrete muffe. Perché allora il Parmigiano del supermercato, che voi comprate e tenete nel frigo, dopo 10 giorni fa la muffa? Perché nel processo di confezionamento viene scaldato a ottanta gradi per ridurre il packaging in modo che la plastica si incolli al prodotto e che il sottovuoto sia resistente e poco ingombrante per lo stoccaggio. Il mio sottovuoto al contrario è molto delicato e occupa tanto spazio perché avviene a freddo. Scaldando il prodotto a contatto con la plastica, non lo so e non lo voglio sapere se fa male o non fa niente ma una volta aperto e lasciato nel frigo dopo un po’ farà la muffa“.

Torniamo alla lavorazione del latte che ogni giorno arriva al caseificio Beduzzo, o meglio del latte che arriva alla sera alla mattina. Il latte della sera viene steso in grandi vasche di acciaio aperte e viene parzialmente scremato per affioramento (vuol dire che durante la notte la parte grassa, la panna del latte,va in superficie e il giorno seguente si recupera il latte scremato per caduta aprendo semplicemente dei tappi e lasciando la parte grassa nei vasconi. Il casaro fa questa operazione utilizzando solo l’esperienza: chiude il tappo quando sente il latte troppo grasso sfiorandolo con le dita).
Alla mattina arriva l’altro latte intero che viene mischiato con quello parzialmente scremato  e finisce nelle otto caldaie coniche di rame. Millecento litri di latte per ogni caldaia. Si aggiunge il siero innesto (fermenti lattici ottenuti naturalmente dal siero della lavorazione del giorno precedente) e caglio di vitello. La cagliata viene spezzata con un attrezzo tradizionale chiamato spino, una sorta di frusta da cucina gigante. Per formare la massa di formaggio la cottura, di circa un’ora, non supererà i 53°C. Fatto sgocciolare, avvolto in un telo, tagliato in due parti e avvolto ancora nella tela, il formaggio viene immesso in una fascera che gli darà la sua forma definitiva.  Da ogni caldaia nascono due forme chiamate gemelle.
Ogni forma viene contrassegnata con dei numeri identificativi che l’accompagneranno per tutto il processo di stagionatura. Dopo pochi giorni le forme di formaggio vengono immerse in una soluzione satura di acqua e sale per 21 giorni. Questa immersione consente al formaggio di fare una crosta dura il più velocemente possibile. Inizia così, all’interno della crosta protettiva, il processo di stagionatura, un mondo che trasformerà il formaggio in Parmigiano. è importante dire che la pastorizzazione avviene in questa fase, durante la stagionatura, nei primi 60 giorni: maturazione in crosta

La stanza della stagionatura è uno spettacolo unico: 3.500 forme di formaggio appoggiate su mensole in legno alte 15 metri. Forme che hanno pochi mesi, forme stagionate di 36, 48 mesi. Qui ogni due giorni con un’apposita macchina le forme vengono girate e spazzolate. Controllate dai lavoratori del caseificio, ma anche dai controllori del Consorzio del Parmigiano Reggiano che decreteranno se le forme meritano il marchio della DOP.
Dopo un minimo di 12 mesi di stagionatura verrà stampato a caldo il marchio del Consorzio sulle forme, ma solo dopo accurate verifiche e controlli manuali (osservazione e battitura con apposito martello)  e con dispositivi elettronici.

Il casaro del Caseificio Beduzzo è un casaro esperto di queste zone, di Torre Chiara. Suo padre faceva il casaro e anche il nonno: “è un mestiere duro, difficile, ci devi nascere e aver voglia di farlo. I giovani di qua non lo vogliono fare più“. I ragazzi che lavorano insieme a lui sono tutti Sikh del Panjab (terra a vocazione agricola). Pochissimi sono i giovani nati qua che vogliono fare questo lavoro. Questo, come altri in Italia, è un territorio nel quale le economie si reggono sulla manodopera di questa comunità indiana. Sarebbe da indagare bene il perché. Sicuramente il lavoro è duro, ma bisognerebbe anche capire le altre ragioni (la retribuzione, le condizioni di lavoro, la soddisfazione, la passione, il legame col territorio, le trasformazioni culturali e antropologiche, i flussi migratori, le culture…). Sta di fatto che a lavorare al Caseificio Beduzzo al fianco di un casaro esperto ci sono solo ragazzi stranieri, che vivono sopra al caseificio e lavorano con professionalità alta, per uno dei prodotti più rappresentativi del cosiddetto Made in Italy.
Luca sta facendo un lavoro folle e importantissimo: rivalorizza una produzione unica e storica promuovendo un territorio bellissimo, selvaggio, con un nome, ma spopolato e poco attraversato. Come spesso accade, a riconoscere il valore, le potenzialità e le specificità produttive di un territorio, sono persone che vengono da fuori, che se ne innamorano e appassionano. Persone che non solo riconoscono l’importanza e il potenziale che esprime quella determinata produzione in quel determinato terroir, ma che intuiscono anche cosa è necessario fare per darle più forza e valore. Riescono a portare l’innovazione che serve riuscendo a connettersi con la storia dei luoghi e del prodotto.

Di Parma e del suo territorio
Luca arriva da Cremona, ha sempre lavorato con gli animali, poi col figlio, otto anni fa, si è trasferito qui rilevando un’azienda agricola con un centinaio di vacche da latte. Un allevamento a 800 metri di altitudine immerso nelle colline, lontano una decina di chilometri non solo dal primo centro abitato, ma anche dalla prima abitazione. Lui, il figlio Massimo e la fidanzata del figlio, Giulia, lavorano in azienda e vivono insieme alle cucciolate di un’Australian Scheeper, e di un’American Maine Coon, nel loro podere aziendale: una roulotte nei pressi della stalla.
La mandria allevata da Luca, dal figlio e dai suoi tre dipendenti (anche loro ragazzi che provengono dal Panjab che a detta di Luca sono competentissimi nel lavoro in stalla e mungitura) è composta da frisone, jersey, brune alpine, grigio alpine e pezzate rosse.

L’azienda produce tutto il foraggio necessario alle vacche, fondamentalmente fieno da prati permanenti, ma anche erba medica, orzo e frumento. L’alimentazione oltre al foraggio autoprodotto prevede l’uso di mangime specifico. Le vacche sono allevate in modo semibrado, nel periodo da giugno a settembre stanno al pascolo soprattutto quelle in asciutta (nei due, tre mesi prima del parto). In questa vallata nasce e viene ancora oggi fatto il Prosciutto di Parma ma se cerchi un allevamento di maiali qui oggi non ne trovi uno, troverai solo camion, in continuo transito, avanti e indietro da ogni parte d’Italia, trasportano solo cosce di maiali appena macellate o prosciutti di maiale affinati col marchio Prosciutto di Parma.
Il processo che ha portato a questo stato di cose non merita semplificazioni e deve essere ben analizzato. Innanzitutto bisogna partire dalla consapevolezza che le leggi e la grande industria hanno la forza di stravolgere e cambiare le produzioni tradizionali e i territori. Solo fino a qualche decennio fa qui c’era un ciclo chiuso unico e pregiatissimo. Alla produzione del foraggio per le vacche si affiancava la produzione per il foraggio e la granaglia per il maiale. La presenza di tantissimi caseifici per la produzione del Parmigiano Reggiano voleva dire una produzione corposa di siero frutto della lavorazione del latte. Il siero è un alimento con valori nutritivi molto interessanti e i maiali ne sono ghiotti. Il siero della lavorazione di un formaggio nobile veniva mischiato caldo con i cereali. Una bomba di alimento: corn flakes per maiali!
Una prima legge dello Stato, circa 25 anni fa, ha imposto che le porcilaie non potessero stare a meno di 800 metri da un caseificio. Chi aveva un’azienda con la compresenza di entrambi le produzioni, una stalla nei pressi di un caseificio, se era in affitto ha dovuto rinunciare. Mettersi a norma risultava troppo costoso, sconveniente. Per i piccoli allevatori di maiali diventò più fruttuoso, viste le nuove norme, dedicarsi solo alla lavorazione e all’affinamento delle cosce. Per la grande industria, che procura le cosce e commercializza il Prosciutto di Parma in tutto il Paese e nel mondo, questa modalità produttiva è, ovviamente, più redditizia.
La grande industria ha oggi, grazie a tutta una serie di normative come e oltre a questa, il monopolio della macellazione e il monopolio della distribuzione:
i maiali li prendo a Brescia o nella provincia di Milano, li macello a Mantova, porto le cosce a Langhirano e poi una volta affinate vengo a ritirare i prosciutti per distribuirli. Tutto il Prosciutto di Parma che circola nel pianeta si produce (o meglio si affina) solamente in una porzione della provincia di Parma.

In prossimità del caseificio c’è un piccolo ma ben visibile negozio dove la cooperativa vende i suoi formaggi e altri prodotti di agricoltori del territorio e non solo. È qui che Luca ci fa assaggiare il Parmigiano Reggiano Beduzzo: 26, 36 e 48 mesi di stagionatura. Apre anche una bottiglia di Malvasia Metodo Classico.
Pasticcini con lo spumante. Prima di prendere la strada di casa seguiamo Luca sul suo furgone lungo le strade della valle per raggiungere la sua azienda e la sua casa. Va veloce e sicuro, facciamo fatica a stargli dietro. Ci inerpichiamo su queste strade, tra queste montagne, attraversando le stalle e calpestando i terreni che tra pochi giorni accoglieranno le vacche al pascolo, chiacchierando convulsamente tra cani, gatti, galline dalle uova blu, conoscendo le persone che lavorano qui e la fatica senza soste che compiono quotidianamente per produrre questo parmigiano di qualità. Tutto questo impone di guardare alla scelta di Luca con sguardo diverso, è dovuto, altrimenti si rischia di far evaporare tutto dentro il nome di un marchio.

Latteria sociale di Beduzzo inferiore
Strada Val Parma 196, Corniglio (Parma) 
www.caseificiobeduzzo.com

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 05
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per continuare la lettura di questo e dei prossimi numeri de L’Almanacco potete scrivere a info@laterratrema.org
o cercare la vostra copia in uno di questi nodi di distribuzione autogestititi dai sostenitori.

Last modified: 2 Mar 2023

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