Di fuoco e di neve. Enò-Trio

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Di fuoco e di neve
di Laura M. Alemagna e Paolo Bellati

fotografie di Laura M. Alemagna


Agosto 2016. Sicilia. I vignaioli e i contadini siciliani che con le loro storie attraversano La Terra Trema sono moltissimi, non potrebbe essere diversamente per un progetto che si chiama così. È agosto e siamo a Catania, alle pendici dell’Etna
Le implicazioni romantiche ci sommergono. ’A Muntagna, il vulcano attivo più alto d’Europa, dimora di miti, di popoli antichi e di dèi. Siculi, Egizi, Greci, Romani hanno calcato queste terre. Qui l’eco del lavoro di Adranòs/Efesto. Qui si compone l’immagine rarefatta di Bacco/Dionisio, tra Catania e Messina, che soffocato da polvere e caldo si lasciò andare al pianto disperato sui sassi. Gli dèi ne ebbero pietà e fecero germogliare tra le pietre un tralcio di vite e poi subito abbondanti grappoli di uva; lui ne spremette qualche acino ricavandone un vino poderoso che bevuto gli diede forza e vigore facendo passare ogni sconforto. Qui Oresteo, “uomo delle montagne”, interrò il ceppo legnoso partorito dalla sua cagna e dal quale, col favore di Sirio, nacque la prima vite sull’Etna. E Polifemo, il ciclope, cadde accecato da Ulisse dopo essersi ubriacato con vino dolce e forte. La storia di questo lembo di terra si muove pari passo con la storia della domesticazione della vite e della cultura del vino, tra mito e storia si intreccia e si aggrappa come viticcio di vite.

Migliaia di anni di cultura vitivinicola stratificati su terrazzamenti di pietra lavica, perfetti per trattenere il buono di terre vocate alla coltivazione della vite. Terreni formati dallo sgretolamento di diversi tipi di lava e materiali eruttivi, stratificazioni di ceneri, lapilli, pomice. Non può essere diversamente: produzioni vitivinicole uniche. Oggi da Catania il nostro viaggio ci porta verso il versante nord dell’Etna, verso Désirée e suo padre, Nunzio Puglisi, dell’Azienda Enò-Trio. Con Désirée ci siamo sentiti più volte in programmazione di questo incontro. Nelle telefonate c’è già uno scarto diverso dall’immagine di lei tra gli stand dell’ultima edizione de La Terra Trema, sicura e forbita, a suo agio completo nella metropoli. Ora la troviamo sempre in campagna, sempre in vigna, al lavoro, a studiare, controllare, a cercare quiete, sommersa da suoni e paesaggi che le sono ancora più consoni. img_068_web

Partiamo. Come pianeti intorno al sole ruoteremo intorno all’Etna, sarà una circumnavigazione. Lasciandoci alle spalle la città attraversiamo il suo hinterland di mostri di cemento e centri commerciali dai nomi facili, che imbarazzano la storia millenaria di questa terra: Etnapolis o Città del Tempo Ritrovato, con la sua facciata lunghissima che taglia l’orizzonte per chilometri e accompagna e aggredisce lo sguardo sul vulcano alle sue spalle.

A Bronte c’è da riappacificarsi col paesaggio, rigoglioso e poco addomesticato. Riprendiamo fiato. Uliveti, boschi e agrumeti che poi lasciano il passo ai pistacchieti, floride coltivazioni per una pianta bellissima, antica e viaggiatrice, che nei frutti cela storie importanti, da conoscere e approfondire. Sapevamo che il territorio di Bronte fosse, nei numeri e nella qualità, il più importante produttore d’Italia di pistacchio, quello verde della Dop, ma scopriamo anche che le aziende della lavorazione, trasformazione e commercializzazione del pistacchio di questo territorio sono le più grandi importatrici di pistacchio d’Italia, forse del mondo. Oggi il pistacchio, quasi tutto, anche a Bronte arriva da Iran e Turchia. L’appuntamento con Dèsirée è al cimitero di Maletto. Lei si scusa per la scelta ma “lì non ci sbagliamo”. Non si può sbagliare, prima o poi ci incontreremo tutti al campo santo, è una filastrocca che ritorna. Ma tra imbarazzo e pudore atavico nel parlare di morte e chiedere il meno possibile, costruiamo il malinteso. Sbagliamo cimitero e stazioniamo minuti e minuti di fronte al bell’ingresso del cimitero sbagliato, quello di Bronte.
Inconsapevoli del malinteso, nell’attesa che comincia a farsi lunga, ritorniamo su una storia accaduta anni e anni fa, negli stessi giorni caldi di agosto. Bronte, 10 agosto del 1860. Sui libri la storia è quella dell’unità d’Italia, nelle strade di quella cittadina e nei dintorni la memoria va alle storie di brigantaggio fuori dalla retorica garibaldina.

Il brigantaggio è storia stratificata e contorta di Mezzogiorno, è storia di un movimento soprattutto contadino diffuso, capillare che coinvolse in una guerra vera e propria metà dell’Italia e si concluse con 7 mila morti in combattimento, 2 mila fucilati e 20 mila prigionieri condannati ai lavori forzati. A queste tristi cifre  – prova reale di un crimine grande compiuto dallo Stato italiano contro il popolo meridionale – si aggiunse la costruzione dello stereotipo infamante proiettato contro le popolazioni del sud e che trovò avvallo nelle tesi deliranti e pseudoscientifiche del Lombroso che parlò “dell’innata delinquenza dei popoli del sud”; oppure nelle dichiarazioni di ministri del Regno come Luigi Carlo Farini: “Altro che Italia! Questa è Africa! I beduini a riscontro di questi cafoni son fior di virtù civile” e del Generale e Deputato Nino Bixio: “La Sicilia non è compatibile con il resto della nostra nazione. La Sicilia è Africa”. È l’estate del 1860: la popolazione brontese è sfinita e incazzata, i proclami garibaldini, ben sbandierati, non hanno esito sulle fasce più povere e suonano come l’ennesima beffa. Sarà mandato a risolvere proprio Nino Bixio quell’insurrezione popolare a Bronte, nel corso della quale caddero sedici persone tra padroni ducali, borbonici e cappelli; fu lui il responsabile del processo in cui centocinquanta persone furono sommariamente giudicate e cinque condannate alla pena di morte per fucilazione in pubblica piazza.

Nella piazzetta che fu luogo dell’eccidio, una delle due lapidi ammonisce la memoria: “La Città di Bronte, ad imperituro ricordo nel 150° anniversario del sacrificio dei cinque concittadini brontesi fucilati. Vittime di una giustizia sommaria, applicata in guerra in nome di una presunta ragione di stato”. L’altra stende sul marmo i nomi delle sedici persone uccise nella rivolta, in perenne ricordo. Chiarito l’equivoco e trovato il giusto cimitero, seguiamo Désirée per un pezzo: “La strada si fa difficile”, ci dice. Lasciamo la nostra auto per proseguire con lei.

Désirée e Nunzio, suo padre, li avevamo conosciuti a La Terra Trema, colpiti positivamente ci eravamo promessi di andare a trovarli. Dèsirée è giovane, ha venticinque anni: dimostra in poco tempo tutta la consapevolezza della propria scelta di vignaiola, sviscera in poche efficaci parole una grande conoscenza del territorio, guida sicura sulle strade che man mano si fanno strette e selvagge. Ci fermiamo a quota mille e cento metri, contrada Nave, comune di Bronte, sullo sfondo l’Etna sempre ben visibile e intorno i Nebrodi, boschi di castagno e una moltitudine di felci. Il terreno è inaspettatamente soffice, erba verde, ginestra, fragoline e finocchietto selvatici, ci imbattiamo subito nella grande stranezza dell’azienda Enò-Trio: un ettaro di gewürztraminer impiantato lì a fine anni Ottanta.

img_0642_webCome fu? Perché impiantare lì, sull’Etna, un vitigno che a noi (e non solo a noi) rimanda all’Alsazia e all’Alto Adige, al mitico vignaiolo Kurt Rottensteiner di Brunnenhof Mazzon, Roncola d’Oro 2013? La risposta è anche semplice all’apparenza: perché siamo in montagna e qui gli inverni sono rigidi con anche un metro di neve che resta fino a marzo. I vitigni aromatici necessitano di sbalzi termici tra giorno e notte (giornate calde per la maturazione e notti fresche per mantenere i profumi). Non tutti lo sanno, ad esempio, ma una delle città dove si raggiungono le più alte temperature in Italia in estate è Bolzano. Nunzio, anni addietro, si occupava della selezione massale tra Etna e siracusano con uno storico vivaista francese, Pierre-Marie Guillaume. Insieme ebbero l’idea di provare ad impiantare gewürztraminer sul vulcano. Non contenti decisero di “estremizzare” ancor di più la “sperimentazione” realizzando un impianto a controspalliera, doppio cordone speronato, una densità d’impianto di circa 8300 ceppi, una resa tra gli 800 grammi-1 Kg per ceppo, una distanza tra filare e filare di 40 cm, piante molto basse, insomma un lavoro molto duro totalmente volto nella direzione dell’alta qualità, a costo di fatiche immani in ogni fase di lavorazione, tutte esclusivamente manuali, tutte da svolgere accovacciati o in ginocchio. 

In campagna rame e zolfo e nessun prodotto di sintesi. In cantina solo acciaio dopo una pressatura soffice preceduta da tre giorni di sosta in cella frigorifera dell’uva raccolta a mano in cassette forate. Nel 2015, due giorni di macerazione sulle bucce. Nessun lievito selezionato, sei mesi di affinamento in acciaio e tre mesi in bottiglia. L’idea è di provare in futuro un ulteriore affinamento in legno. Traminer Aromatico IGT Terre Siciliane 2014, diverso sicuramente dai traminer alsaziani, ma indubbiamente interessante, sapido e profumato, e già prefiguriamo un “contest” tra Alto Adige Gewürztraminer DOC di Kurt e questo Traminer Vulcanico di Enò-Trio. Désirée, che coglie al volo il pensiero, ne ha portato fin qui una bottiglia: continuiamo il nostro dialogo gustando vino e paesaggio, alziamo i calici al vigneto di fronte e all’intuizione, al lavoro di Nunzio, al coraggio ostinato e caparbio di Désirée.

Di fianco al traminer c’è un ettaro di moscato d’Alessandria (petit grain), impiantato sei anni fa, col quale Enò-Trio per ora fa un vino liquoroso da vendemmia tardiva: in futuro, forse, ne verrà fuori una bollicina.

Désirée ci racconta delle potature, delle legature, dei passaggi del padre col motozappa tra filare e filare. Lei passa moltissimo tempo in campagna, dice che sta imparando ma salta all’occhio che sia già molto brava.img_0649_web

Lo si capisce dalla consapevolezza, da passione e precisione con cui ci racconta il lavoro, le vigne, il terreno: Mi piace tantissimo venire quassù a lavorare, anche perché trovi la pace, la serenità. È dura lavorare qui, ci sono giorni in cui ti perdi tra i filari. Inizi un filare, poi lo finisci, poi lo riinizi da sola, e dici – che cosa ci sto a fare qua? – ma è molto bello, soprattutto capire cosa quest’uva porta al vino. In base all’annata cambia tutto.

Prima di raggiungere Nunzio andiamo in visita ad un’altra vigna, un ettaro di nerello mascalese. Siamo nel comune di Randazzo, contrada Calderara, 650 metri sul livello del mare. Una delle zone più rinomate dell’Etna. La vigna è circondata da alberi di ulivi secolari. Il terreno è ciottoloso, nero di pietra vulcanica. Fa uno strano effetto camminare su una superficie così. Sotto quello strato di pietra leggera c’è un terreno morbido. Le viti hanno mediamente 60-70 anni, in buona parte franche di piede, filari a doppio cordone speronato. Anche qui gli unici trattamenti sono rame e zolfo e tutte le lavorazioni vengono eseguite manualmente, compresa la zappatura. Subito dopo esser stata raccolta, l’uva passa nella pigiadiraspatrice a rulli. La fermentazione avviene in tini e mastelloni in polietilene, senza aggiunta di lieviti. Il vino resta a contatto con le bucce per dieci, quindici giorni e finita la fermentazione alcolica passa in un torchio idraulico manuale per una pressatura soffice. Affinamento di un anno-un anno e mezzo in tonneaux e barrique di rovere, sei mesi di acciaio e altri sei mesi in bottiglia. Chiaramente questo è il vino rappresentativo del territorio. A nostro parere uno dei Nerelli Mascalesi più interessanti dell’Etna. 

img_0651_webIl quarto vino di Enò-Trio è un Pinot Nero. Mezzo ettaro a mille metri sul livello del mare nel comune di Maletto, su terreno argilloso. Purtroppo non abbiamo tempo per andare a visitare il vigneto e nemmeno assaggeremo il vino. Si è fatto tardi. Rimedieremo la prossima volta.

Enò-Trio è un’azienda giovane, nata nel 2013 ma ha una storia importante alle spalle e un futuro da costruire su questa consapevolezza. Nunzio lo raggiungiamo mentre sta lavorando alla nuova cantina, qualche centinaio di metri dal vigneto di nerello. La cantina è quasi pronta per accogliere la vendemmia imminente e le prossime vinificazioni; gli occhi brillano, entusiasmo ed eccitazione per questa nuova conquista sono palpabili. 

Anche Nunzio qui ha una forma nuova. Al Leoncavallo lo avevamo incontrato compìto, voce e modi pacati, elegante, al collo una sciarpa annodata alla parigina: qui ci accoglie in abiti da lavoro intento a fare il muratore. Ci accoglie con tanta modestia, orgoglioso, appassionato, e con tanta voglia di raccontare. Lui ha partecipato alla storia vitivinicola dell’Etna. È nato qui, a Maletto. 

Ha lavorato con molte aziende vitivinicole, dalla Toscana all’Isola d’Elba, dalla Campania alla Sicilia. è stato anche in Borgogna a sviluppare e perfezionare la sua professionalità, ad affinare la passione. A fine anni Ottanta si è occupato della selezione massale delle varietà autoctone dell’Etna e del siracusano: il nerello cappuccio, il nerello mascalese, il carricante e il nero d’Avola. Ha lavorato per anni su queste varietà, sui porta innesti più adatti seguendo le microvinificazioni prodotte da queste selezioni. Le piante che hanno confermato nelle sperimentazioni i parametri migliori, questi nuovi cloni, questi nuovi porta innesto e le tecniche enologiche innovative, sono state poi diffuse nelle migliori e più conosciute aziende dell’Etna e non solo. Nunzio, per molti anni, è stato responsabile tecnico e viticolo di aziende che hanno rilanciato la viticoltura dell’Etna e della Sicilia con vini conosciuti e riconosciuti in tutto il mondo. Ascoltare questo signore è uno spasso; le sue sono vere e proprie lezioni sulla vite, sulla sua coltivazione, sulla vinificazione e sulla storia di questo territorio. Precisissimo nei suoi racconti, pronto a rispondere a qualsiasi domanda e ossessionato all’inverosimile dall’attenzione per il lavoro in campagna: L’importante è arrivare in cantina con l’uva bella e sana e il gioco è fatto (…) L’uva la devi solo accompagnare in cantina (…) Oggi chi fa inerbimento viene automaticamente considerato biologico, così come chi impianta un vigneto a alberello e ci mette un palo in castagno è sicuro che ci tira fuori la qualità! Ma non funziona così. Nell’alberello, dove tutto funziona con tre, quattro speroncini con la pianta legata a un palo, la questione è molto complessa e ci vuole grande equilibrio e conoscenza. Cosa succede? La parte esterna è al sole, la parte interna è all’ombra e se dovesse piovere c’è il rischio di tutte le malattie fungine. Cosa che, per esempio, non succede col doppio cordone speronato perché tutta la parete fogliare è esposta al sole, ma al contrario è più difficile tenere il tutto più concentrato e vicino al tronco, cosa che invece è più facile e naturale con l’alberello… qua negli anni Settanta sono state estirpate intere vigne facendo dei danni enormi per mettere giù dei vigneti così detti alla continentale, mettendo meno ceppi, allungando la potatura per mantenere le stesse quantità di produzioni, ma il nerello mascalese, il carricante e il nerello cappuccio, soprattutto i vecchi cloni, facevano dei grappoli che con quell’allevamento non maturavano mai, insomma si son fatti dei disastri. L’alberello è la tradizione, è un metodo di coltivazione delle varietà dell’Etna sicuramente indicato, ma va saputo gestire, così come il cordone speronato, che io preferisco, ma anche lui va saputo gestire, bisogna saper sfruttare la parete fogliare, le piante vanno messe a una distanza di ottanta centimetri,  massimo quattro speroni, due e due, tutto concentrato come se fosse un alberello però ce li hai a fianco… chi fa cordone unilaterale secondo me già sbaglia perché c’è molta difformità tra i primi grappoli e gli ultimi… col doppio cordone l’uva lavora meglio, i grappoli sono tutti esposti… img_0677_web

Tutta questa esperienza, l’enorme conoscenza acquisita, ogni singolo giorno di storia costruita, Nunzio si è convinto a farla diventare anche storia familiare, sotto la spinta soprattutto di una giovanissima Désirée e coinvolgendola generosamente, lasciandole spazio là dove era il suo regno.

L’Etna spinge. Tra mode e tendenza, qui sono arrivati grandi marchi, grandi nomi e grandi interessi affiancandosi ai grandi artigiani che conservano e sviluppano una storia vitivinicola unica. Il giornalismo di settore parla e straparla di vini etnei. Squali della distribuzione si aggirano tra le colate laviche, computer portatile e iPhone in mano. La Doc Etna è del 1968 e come tante altre Doc è stata depotenziata e ha perso la forza iniziale. Un territorio straordinario che ha espresso tanto e che tanto potrebbe ancora fare, rischia di entrare nel vortice dei soliti dispositivi del mondo vinicolo. Pronta beva, pronti a tutto. Per ora son cambiati solo di poco i disciplinari e c’è più traffico sulla Muntagna. I vini artigianali di qualità sono ancora il segno distintivo della viticoltura etnea. Giovani come Désirée sono potenzialità esplosive per questo territorio e per l’intero mondo del vino e dell’agricoltura nazionale. Persone come Nunzio rappresentano un patrimonio – conoscitivo e storico – vivente di cultura materiale e vitivinicola: il suo lavoro va valorizzato e studiato. Nunzio è un maestro, un pioniere dell’Etna, trent’anni veri di viticoltura sulla pelle. Storie come queste sono memoria e futuro. Il vero antidoto alle devastazioni territorialiimg_0744_web

La Terra Trema
“Siamo stati contenti della nostra prima edizione de La Terra Trema, è stato bellissimo, come primo anno è andato alla grande, ci siamo trovati molto bene. Un pubblico attento e formato. Davvero! Se ci volete ancora torniamo! Grazie a realtà come la vostra, a tanti piccoli vignaioli e a sempre più persone attente alle produzioni artigianali anche noi ci stiamo ricavando dei piccoli spazi di agibilità e soddisfazione”.

 

Enò-Trio
Contrada Calderara, sn, 95036 Randazzo (CT)
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Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 02
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
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Last modified: 2 Mar 2023

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